73° Anniversario della battaglia della Zona libera del Friuli Orientale
Premessa
Nel territorio di Faedis, con giovani provenienti da tutto il Friuli, da Udine alla Bassa friulana, con un consistente contributo dei locali, si costituì fin dal settembre 1943 uno dei primi battaglioni della Resistenza italiana: il battaglione Friuli, garibaldino, che ebbe per comandante Giacinto Calligaris “Enrico”, per commissario Mario Foschiani “Guerra”, per responsabili Giovan Battista Periz “Orio”, Oreste Cotterli “Arno” e molti altri, tutti caduti nella lotta e fra le più luminose figure della nostra storia nazionale.
Accanto a questa prima formazione nel territorio di Faedis si costituì quasi contemporaneamente il battaglione “Giustizia e Libertà”, l’unica formazione friulana del Partito d’Azione: ne facevano parte Fermo Solari, Alberto Cosattini e Gastone Valente “Enea”.
E’ da queste formazioni che partono le prime azioni contro gli occupatori.
Il 4 giugno 1944 Roma fu liberata. Dieci giorni dopo, l’organo politico di direzione della Resistenza nell’Italia occupata, il CLN Alta Italia, lanciò l’appello all’offensiva generale.
In poche settimane il quadro militare e politico sembrò nettamente cambiato: il governo di Salò era profondamente in crisi e isolato nel Paese, come dimostravano l’esito negativo delle leve fasciste e i numerosi passaggi di militi repubblicani nelle file partigiane; in crisi erano anche gli occupatori tedeschi, che, incalzati dalle truppe alleate, avevano perso il controllo di grandi zone in mano alle bande del movimento di liberazione.
Si apriva una prospettiva: quella dell’insurrezione, che (cito dalla circolare del 2 giugno del CLN Alta Italia, che sollecita la costituzione delle zone liberate) avrebbe fornito “la prova storica dell’opposizione del popolo italiano al nazifascismo” e “la sua riabilitazione di fronte al mondo intero”.
Riabilitazione rispetto alle responsabilità del regime fascista: di aver scatenato insieme al Terzo Reich e al Giappone una guerra orribile; e di aver collaborato alla “soluzione finale” degli ebrei europei con le leggi razziali prima, con le disposizioni della Repubblica sociale poi, che ordinavano la requisizione totale dei beni degli ebrei italiani, il loro arresto e la consegna ai tedeschi.
Era giunto il momento che il movimento di liberazione costituisse organi di potere che fossero validi interlocutori dell’amministrazione alleata.
In altre parole le zone libere e la loro amministrazione dovevano rappresentare il primo vero banco di prova della nuova classe dirigente antifascista.
In realtà, di zone controllate dai partigiani ove organizzare la vita civile si parlava ben prima dell’estate, specialmente da parte del partito comunista. Il presupposto era il rifiuto di una Resistenza impegnata solo in attività di sabotaggio e di guerriglia di disturbo: la Resistenza invece doveva coinvolgere la popolazione civile. Luigi Longo già nel giornale “Il Combattente” del gennaio ’44 invitava i partigiani, dal Piemonte all’Emilia al Friuli, che già presidiavano ampie zone, “ad esercitarvi sistematicamente il potere, dando autorità al popolo”.
In quel momento storico, caratterizzato dalla veloce avanzata alleata, il CLN Alta Italia e il Corpo Volontari della Libertà, la guida militare della Resistenza, costituito a Milano il 9 giugno ’44, fecero propri questi presupposti.
Questo fu lo spirito della circolare del CLNAI del 2 giugno, che iniziava con queste parole:
“Il corso degli eventi permette di prevedere che a scadenza non lontana si verificheranno probabilmente avvenimenti di grande importanza per la liberazione del nostro paese…”.
E più avanti affermava: “Allorquando, nel corso della lotta, la liberazione di un determinato territorio o località non coincida immediatamente nel tempo con l’intervento degli eserciti alleati e del Governo nazionale, … ai CLN provinciali e locali incombe il dovere di assumere di loro iniziativa… la direzione della cosa pubblica, di assicurare in via provvisoria le prime urgenti misure di emergenza per quanto riguarda la prosecuzione della guerra di liberazione fino alla distruzione del nazifascismo, i provvedimenti di epurazione contro i fascisti repubblicani e gli agenti del nemico in genere, l’ordine pubblico, la produzione, gli approvvigionamenti, e servizi pubblici ed amministrativi, eccetera”. E ancora: “I CLN locali provvederanno alla nomina di un sindaco e di una giunta comunale…”.
A questa direttiva seguiranno il 28 giugno, il 10 e il 19 luglio le istruzioni dettagliate del CVL sull’organizzazione militare e civile delle zone liberate.
Sotto l’impulso di queste direttive si formarono nell’Italia occupata 19 zone libere, in un arco cronologico che va dal 10 giugno, data della creazione della zona della Val Ceno (Parma), all’inizio di dicembre, quando si conclude l’esperienza a Torriglia (Genova) e nell’Alto Monferrato. Tra le più note, citiamo la repubblica di Montefiorino (Modena), la Val D’Ossola (Novara), le Langhe, e le due friulane, della Carnia e del Friuli Orientale.
La zona libera del Friuli Orientale
La divisione unificata Garibaldi Osoppo “Natisone” libera e difende nell’estate 1944 un territorio di circa 70 kmq, che comprende i comuni di Attimis, Nimis, Faedis, Lusevera, Taipana e Torreano di Cividale, con 20.000 abitanti.
È una zona di forte importanza strategica: alle porte di Udine, minaccia vie di comunicazioni vitali per i tedeschi: la strada e la ferrovia Pontebbana, la strada e la ferrovia che conducono a Cividale. Attraverso il Collio, zona partigiana, si salda con i territori liberati dal IX Korpus sloveno.
Le formazioni partigiane, secondo le direttive del CLNAI e del CVL, cercano di creare organismi civili di autogoverno. Vengono costituiti CLN a Nimis, Attimis, Faedis, Torreano, Lusevera e Taipana; si stimolano riunioni e incontri di capifamiglia per affrontare i problemi economici; a Nimis vengono eletti sindaco e giunta; ad Attimis un’assemblea di capifamiglia nomina gli amministratori. Altrove le funzioni di governo sono esercitate direttamente dai CLN.
Il 27 settembre la zona sarà investita da un potente attacco di tedeschi, fascisti e cosacchi, con mezzi blindati e artiglieria.
Nella notte tra il 28 e il 29 settembre, ai partigiani non rimarrà che ripiegare e nei giorni successivi si scatenerà la vendetta tedesca.
A seguito dell’Unternehmen Klagenfurt, l’operazione antipartigiana messa in atto tra il 26 e il 30 settembre 1944 dai Comandi tedeschi per eliminare la Zona libera del Friuli orientale, i paesi di Attimis, Faedis e Nimis furono fatti oggetto di una dura rappresaglia. Dopo gli scontri cruenti con i partigiani, i tedeschi, consolidate le loro posizioni, iniziarono un’azione punitiva contro i dei borghi ritenuti covi partigiani.
Ad Attimis la rappresaglia iniziò la mattina del 29 settembre; reparti di SS iniziarono a razziare il bestiame, seguì poi il rastrellamento delle persone, il saccheggio del paese e l’incendio di diverse abitazioni. Molte persone vennero deportate. Gli abitanti rimasti senza tetto si raccolsero alla meglio nelle case non danneggiate. Poi giunsero i cosacchi che rubarono quanto era rimasto e terrorizzarono la popolazione.
Faedis subì un potente bombardamento di artiglieria il 27 settembre e la popolazione terrorizzata scappò nelle campagne. Le truppe in rastrellamento entrarono in paese, ma vennero ricacciate dal fuoco partigiano. Il giorno seguente i tedeschi tornarono in forze e rastrellarono il centro abitato e le frazioni circostanti. Molti vennero arrestati, alcuni furono rilasciati, altri deportati. Le SS si diedero poi al saccheggio e il paese viene dato alle fiamme; 5 uomini vennero fucilati mentre tentavano di impedire che le loro case venissero incendiate. Anche a Faedis arrivano i cosacchi e si susseguirono nei giorni seguenti violenze, ruberie e devastazioni.
Il 28 settembre Nimis venne bombardato dall’artiglieria, molti civili fuggirono verso le montagne mentre i primi reparti tedeschi occuparono il centro abitato. La rappresaglia iniziò il 29 settembre; il paese venne evacuato, la popolazione fu fatta sfollare parte verso Tarcento, parte verso Segnacco e Villafredda. Cinque uomini di Cergneu vennero fucilati a Villa Ortensia perché ritenuti partigiani; altri due uomini del paese furono uccisi durante il rastrellamento. Tra gli arrestati più di 130 persone furono deportate in Germania. Il paese fu poi dato alle fiamme. Si salvarono poche abitazioni che furono occupate dalle truppe cosacche. Agli abitanti di Nimis fu fatto divieto di rientrare in paese (gli uffici comunali si trasferirono a Tarcento, il Comune dette ospitalità a circa 1.800 cittadini, altri si dispersero nei paesi vicini, 400 persone si rifugiarono a Reana del Rojale). Solo dopo laboriose trattative e sollecitazioni, anche da parte dell’arcivescovo di Udine, fu concesso alla popolazione di rientrare in paese nel gennaio del 1945.
Secondo le ricerche di Fogar i morti a Nimis furono 6, 16 a Faedis e 13 ad Attimis. I dati riguardanti la deportazione sono incompleti: 64 giovani e 24 ragazze di Nimis furono inviati in Germania, di questi una quarantina non tornarono; 91 sarebbero i deportati di Faedis (17 non rientrati); 41 i deportati di Attimis.
I dati riferiti ai danni e alle devastazioni dei paesi fanno comprendere la portata della rappresaglia: a Nimis e frazioni (Torlano, Cergneu) furono incendiate 452 case e 318 stalle e andò perduto circa l’80% del patrimonio zootecnico; a Faedis e frazioni (Canebola, Clap, ecc.) 85 edifici andarono distrutti; ad Attimis e frazioni (Subit, Forame) furono bruciate 154 case e 118 stalle.
Come testimonia Alfredo Berzanti “l’attacco si presentava come il più poderoso che i tedeschi avessero sferrato in Friuli contro i partigiani.
Perché tanto accanimento? I nazifascisti non potevano più sopportare — senza pesanti conseguenze per il loro prestigio — il grave affronto cui erano sottoposti. I partigiani, infatti, non solo avevano avuto l’ardire di sottrarre loro un ampio territorio del Friuli, ma vi avevano addirittura instaurato, con il consenso dellepopolazioni, le libere istituzioni democratiche. E tutto ciò era potuto avvenire non in zone lontane, impervie, docilmente accessibili, ma a pochi passi, quasi alle porte della città di Udine. Era dunque una sfida intollerabile. Bisognava farla finire; bisognava punire duramente chi aveva tanto osato. Ecco perché — continua la testimonianza di Alfredo Berzanti — furono crudelmente colpite anche le genti inermi e furon dati alle fiamme tutti i loro paesi. Il prezzo pagato fu enorme; il sacrificio incalcolabile”.
Dopo circa tre mesi di libertà tornava la cupa oppressione. A completare le sventure della popolazione vennero mandati ad occupare Faedis e i territori degli altri Comuni i cosacchi e i caucasici che scatenarono quotidiane razzie, seminarono il tenore e il più profondo lutto tra la gente: distrussero le vigne, ogni coltura, le opere agricole, tutto divenne oggetto di bottino.
Arrivati a Faedis i primi di ottobre, rimasero una prima volta per una ventina di giorni, costringendo la gente a rifugiarsi nei boschi o a trovar rifugio a Udine.
Sembrava tornata la calma, una almeno relativa tranquillità. Ma i cosacchi ricomparvero nuovamente a Faedis verso la fine dí novembre: nuove devastazioni, nuove razzie, nuovo tenore della popolazione. Le forze partigiane, che nel frattempo si erano riorganizzate, li affrontarono ripetutamente; riuscirono ad impedire loro di raggiungere le frazioni del Canal di Grivò, di Clap e di Canebola. Ma per Faedis quelli furono giorni di desolazione, di rapine e di violenze da parte dei cosacchi. La gente visse continuamente in apprensione e pronta alla fuga.
Considerazioni
Nella storia della Resistenza italiana la formazione delle zone libere, di territori interamente controllati dalle forze partigiane dopo l’eliminazione dei presidi nazisti e fascisti, fu una delle manifestazioni più significative del risveglio democratico degli italiani.
Esse costituirono una realtà nuova nel corso di una spaventosa guerra, e i loro ordinamenti furono destinati a tradursi negli ordinamenti democratici del futuro stato repubblicano.
Nel 2005, alla 61° rievocazione, Federico Vincenti, portando il saluto dell’ANPI, ha concluso il suo discorso dicendo: «…Non è possibile tacere o rassegnarsi, è dovere dei partigiani, degli antifascisti e di tutti i democratici che hanno a cuore il futuro della Repubblica impegnarsi per salvarla dal marasma prima che sia troppo tardi. Ignorare la gravità di quanto succede significa tradire la libertà e la democrazia, costate, come oggi ricordiamo in Faedis, lacrime e sangue».
In quell’occasione l’orazione ufficiale è stata tenuta dal prof. Sergio Cecotti, figlio di un partigiano e Sindaco di Udine – città dei cento fucilati e M.O. al V.M. per la Guerra di Liberazione – che ha concluso il suo discorso con queste parole: «… Ho voluto ricordare con qualche dettaglio questi eventi… per dimostrare due cose: che la Resistenza friulana non fu, come qualche volta si è spinti a credere, un fatto militarmente irrilevante nel quadro della campagna d’Italia. La considerarono un elemento strategicamente rilevante gli alti comandi tedeschi, e sarebbe strano e assurdo che noi, i figli dei difensori della Zona Libera, dessimo a quello che essi fecero, meno peso e meno onore di quanto, implicitamente, ne riconobbero i nemici mobilitando contro di essi ingentissime forze. Il secondo motivo è che, pur nella breve e travagliata vita, questa Zona Libera rappresentò un importantissimo fatto politico, e non solo militare. Perché qui si tentò di costruire una democrazia dal basso, organizzando prima i comuni; e qui si realizzò una politica della Resistenza friulana che in altre occasioni mancò».
E Piero Calamandrei nel “Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza” tenuto a Milano il 26 gennaio 1955:
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Noi oggi, perciò, ci diciamo che la nostra Costituzione è nata anche tra quegli uomini e quelle donne che hanno dato vita alla Zona libera del Friuli Orientale e che per difenderla hanno offerto la loro vita.
Ricordarli non solo è doveroso, ma, come abbiamo sentito da Calamandrei, lo vogliamo fare perchè sentiamo dentro di noi l’esigenza, direi la necessità, di tramandare questi ricordi anche a coloro che non li hanno vissuti. I ricordi servono spesso a trasportare idealmente nel presente ciò che non c’è più: nel nostro caso noi vogliamo ricordare non solo coloro che non ci sono più, ma soprattutto i valori che li hanno spinti a rischiare la loro vita e molti a perderla.
Allora è giusto ricordare e ringraziare partigiani e non, che con la Resistenza ci hanno permesso di vivere in un Paese in cui la libertà dell’individuo è garantita.
Ed è bene ricordare l’orrore che ha avvolto il mondo a causa dell’ideologia malata del nazifascismo.
Ed è necessario ricordare come sono andati i fatti, per non commettere gli stessi errori in futuro e per contrastare tutti i tentativi revisionisti o addirittura negazionisti.
“Non ci opponiamo – si legge nella commemorazione tenuta qui 10 anni fa – al “revisionismo storico” semplicemente perché, come è vero, non si possono mettere sullo stesso piano torturatori e martiri, assassini e vittime, ma perché questo disconosce ed indebolisce le fondamenta stesse dello stato democratico che la Resistenza ci ha dato”.
Da pochi giorni la Camera ha approvato il ddl Fiano che inserisce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista. “La norma contro l’apologia del fascismo è necessaria. Per l’oggi, non per fare processi o rivisitare il passato”, sostiene Walter Verini commentando il via libera al provvedimento che avviene a pochi giorni dalla minaccia di Forza Nuova di organizzare una nuova “marcia su Roma” per fine ottobre.
Potrà sembrare per certi versi anacronistico fare oggi una legge che condanna l’apologia del fascismo. Purtroppo non è così.
Paolo Cognetti, Premio Strega 2017 con “Le otto montagne”, iscritto all’Anpi alla sezione Bovisa di Milano: “Esiste un pericolo. Oggi si può essere, di nuovo, fascisti. E ho paura”.
Detto questo, che cosa sta per davvero succedendo, si chiede Claudio Vercelli su Patria Indipendente? Di cosa stiamo parlando? Torna il fascismo? Soprattutto, esistono rischi per la tenuta democratica, a fronte delle grandi difficoltà che oramai da molto tempo la politica incontra nel governare cambiamenti che sembrano metterla alle corde?
Purtroppo il fascismo non è un reperto archeologico.
Il populismo dilagante, la fame e la precarietà quotidiana che si vive nei nostri quartieri e che spesso si trasforma in odio verso il più debole, le guerre in corso con uomini e donne in fuga dai propri paesi che giungono sulle nostre coste affrontando la morte in mare e che vengono considerati degli infiltrati o comunque meno umani perché non italiani, il dilagare di comportamenti omofobi e razzisti sono questioni che necessitano di un impegno comune antifascista.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Resistenza fu sì un moto di popolo contro il nazifascismo e per la libertà, ma anche che questa libertà era costituita da valori come l’uguaglianza, come il lavoro e la partecipazione democratica. Tutto questo è codificato dalla nostra Costituzione, che rappresenta la massima sintesi dei valori su cui si basa la convivenza civile.
Secondo Cecotti, la Zona Libera rappresentò un importantissimo fatto politico, e non solo militare perché qui si tentò di costruire una democrazia dal basso.
Per la vita democratica, purtroppo, questi ultimi anni ci danno l’idea di essere sempre più difficili: sono ormai milioni i cittadini che non si recano alle urne e che guardano disincantati, quasi da estranei, alle vicende italiane.
Forse un ennesimo insegnamento può venirci dalla Resistenza per quel suo fortissimo legame con le popolazioni locali, con i territori, per una appartenenza alla propria terra che era quella italiana ma anche quella friulana nel nostro caso. Se è così, “dal basso” può essere una speranza se sapremo recuperare e trasmettere i tanti messaggi che la lotta di Liberazione ci ha inviato rendendoli sempre più parte essenziale della nostra vita.
Tuttavia noi oggi, come dicevo, viviamo in un periodo storico che vede sempre più indebolirsi la consapevolezza di far parte di un tutto che val la pena mantenere in vita e far progredire. In particolare i giovani appaiono disillusi e sfiduciati, molti senza lavoro e privi di prospettive.
Non è facile oggi parlare a tanti giovani ricordando loro quanto i nostri padri ci hanno insegnato.
Ma non abbiamo altra scelta, non solo perché tradiremmo la memoria di tutti quelli che oggi ricordiamo qui e di quelli che ricordiamo il 25 aprile, ma anche e soprattutto perché il futuro appartiene a loro: noi abbiamo il dovere di lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato. Sicuramente non stiamo facendo abbastanza in questa direzione: troppe le ingiustizie, troppo marcate le disuguaglianze nel nostro Paese e nel mondo.
Tuttavia non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità, e questo in fondo stiamo facendo oggi qui per la settantreesima volta: cerchiamo di essere all’altezza del compito che tanti ci hanno affidato sacrificando la loro vita, cambiare lo stato delle cose per rendere possibile che si aprano orizzonti più larghi e certi per tutti coloro che stanno per intraprendere gli anni più importanti per il loro futuro.