Orazione di Chiara Quaglia alla cerimonia in Sutrio, domenica 19 luglio 2020


Relazione in memoria dei caduti nell’eccidio della Valle del But 

19 luglio 2020 – Monumento ai caduti 21-22 luglio, Sutrio

Mi chiamo Chiara Quaglia. Mio nonno, Alessio Quaglia, è morto il 21 luglio 1944 nell’eccidio di Malga Pramosio. Mi permetterò oggi di dire qualcosa su questa vicenda dal mio punto di vista, che non è politico, né accademico, né storico, ma familiare e molto personale.

La mia ovviamente non è una testimonianza diretta di quegli eventi: nemmeno mio padre era nato all’epoca dei fatti, ma era nel grembo di mia nonna e sarebbe nato di lì a pochi mesi. E’ però una vicenda che, come tutte le vicende familiari, è presente dentro di me come un’eredità viscerale, un vissuto sotto pelle, con il quale ho confidenza fin da bambina, quando si vuole sapere tutto sui propri avi e sulle proprie origini.

Ho trascorso molti anni, raggiunta l’età adulta, pensando solo superficialmente ai fatti del 21 e 22 luglio, presa come tutti dalle incombenze della vita lavorativa e familiare. Qualche pensiero retorico e veloce nei giorni della ricorrenza, e nulla più. Ma quest’occasione mi ha fatto tornare alla mente la bambina e adolescente che ero e che, magari avendo più tempo e più curiosità, rifletteva  a lungo su queste vicende, ponendosi molte domande nei confronti di quello che le veniva raccontato a casa e a scuola.

La grande domanda a cui cercavo risposta era: chi era mio nonno Alessio?

La risposta: un semplice casaro, che lavorava alla Malga di Pramosio. Con una certa tenerezza, ripenso alle mie sensazioni di bambina e devo ammettere che questa risposta mi lasciava quasi delusa: avrei voluto forse un nonno più “eroe”; forse mi sarebbe piaciuto poter dire,con la vanità tipica dei bambini, che mio nonno era un partigiano che era morto lottando per la libertà. E invece era “soltanto” un lavoratore , padre di famiglia con cinque figli e un sesto in arrivo, che semplicemente cercava di continuare a lavorare per mantenere la sua famiglia. Mi sembrava quasi che la sua morte avesse un valore inferiore, che fosse avvenuta per caso, senza una particolare gloria.

C’era una lettera scritta da mio nonno a mia nonna, il 12 luglio,di cui vi voglio leggere una parte:

“Cara moglie, ti mando a mezzo del conducente che forse Enzo ti farà il favore di portare anche la roba sporca e così ti risparmia il viaggio fino a Paluzza. Subito non mi occorre, ad ogni modo ti tornerò a scrivere, così pure se hai di mandarmi le zoccole che sono ancora in cameron, sono quelle con qualche spaccatura ma bisogna che le fai raschiare un poco tanto ai diti come al tallone perché mi sono corte. In Pramosio non si sente buone novità e anche di fuori. Quel morto di domenica fa certo complicare le cose e a me molti pensieri si uniscono nella testa. Il padrone pure non sa cosa decidere se smonticare o meno, oggi dice di aspettare e vedere come vanno le cose e se di altre malghe devono smonticare, così gli toccherà fare altrettanto. Da domenica in poi ho sentito poca quiete e chi sa come andrà a finirla. Ho ricevuto una tua in data 5. Aspettavo più notizie di leggere. Ti tornerò a scrivere. Saluti. Baci i bambini. Procurati più che puoi il corredo di casa e le altre cose. Alessio.”

Devo dirvi che non mi sembrava granché questa lettera, non era un martire che parlava, né tantomeno un eroe, ma soltanto un lavoratore indaffarato, col pensiero alle sue fatiche quotidiane e alla famiglia lontana, un lavoratore certamente preoccupato della situazione alla Malga, ma che non sembrava avere un pensiero politico, non lottava per nessun ideale.

Penso oggi a queste sensazioni infantili  con un certo imbarazzo e disagio, ma proprio da questo imbarazzo voglio partire oggi per fare alcune riflessioni insieme a voi. Mio nonno, un semplice lavoratore: da bambina mi sembrava una cosa banale, ma se ci ripenso oggi invece mi appare come la cosa più nobile, coraggiosa, onesta e libera che poteva essere. Un lavoratore che, nel pieno della tempesta della guerra civile, aveva scelto di continuare a fare ciò che aveva sempre fatto e che sapeva fare, il casaro. Un lavoratore che probabilmente sapeva di rischiare molto, ma coraggiosamente continuava nel suo lavoro in Malga. E come lui molti altri erano vittime civili, pastori, lavoratori della terra, giovanissimi oppure anziani, madri e padri di famiglia, che vivevano una resistenza inerme ma non per questo meno eroica: la Resistenza del lavoro quotidiano.

Troppo spesso noi, assuefatti dalla società consumista, vediamo il lavoro solo come il diritto ad avere un giusta retribuzione.  Anche le lotte per il lavoro sono spesso incentrate solo su questo.

Ma oggi la storia di mio nonno Alessio mi ricorda che il lavoro è molto di più. Il lavoro è il mezzo con cui ognuno di noi può tenacemente esercitare la libertà di attuare il progetto della propria vita, la libertà di manifestare le proprie idee e renderle concrete, la libertà di realizzare i propri talenti e migliorare il mondo in cui viviamo. Il lavoro è quindi certamente un diritto, non solo perché lavorando possiamo procurarci i mezzi per vivere, ma soprattutto perché come cittadini possiamo col nostro lavoro migliorare noi stessi  e contribuire al progresso della società civile.

Qualche riflessione simile possono averla fatta i nostri padri costituenti, che hanno messo il Lavoro come fondamento della Repubblica, indicando all’articolo 1 che: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, affermando la corresponsabilità di tutti i cittadini nel costruire giorno per giorno una società più giusta. Dopo una dittatura e una guerra fratricida, non hanno scelto concetti astratti come uguaglianza, fraternità, libertà, pace, che pure sono il fondamento di moltissime altre costituzioni moderne, ma hanno individuato nella concretezza del lavoro il faro della nostra Repubblica.

Sento queste riflessioni sul valore del lavoro ancora più vere dopo i duri mesi di emergenza sanitaria che abbiamo passato. Quanti di noi hanno visto il proprio lavoro negato o messo in pericolo? Quanti di noi hanno rischiato in prima persona continuando a lavorare nel pieno della tempesta? Quanti di noi ancora oggi non possono lavorare e vedono nel futuro ancora molte incertezze per il proprio lavoro?

Penso che tutti noi in questi mesi abbiamo fatto esperienza diretta o indiretta di questo. Abbiamo sperimentato una vita quotidiana intrisa dalla “paura” dell’altro, un po’ come doveva essere la vita quotidiana nell’estate del 1944. Certo, il confronto è quasi blasfemo, ma mi rendo conto che per noi la paura del virus si è tradotta spesso in una paura generalizzata nei confronti del mio prossimo, del mio vicino, di qualsiasi uomo: una paura simile la dovevano avere anche gli uomini e le donne in Carnia in quell’estate del 1944. Nonostante questa paura, loro hanno continuato con coraggio il loro lavoro quotidiano, le incombenze nei campi e con le bestie, i lavori artigiani, la mansioni familiari, e oggi ci insegnano che la Resistenza è anche resistere nel proprio quotidiano senza arrendersi alla paura dell’altro. Ci ricordano anche che, oggi come ieri, il lavoro continua a richiedere coraggio, onestà, libertà e dedizione. E di nuovo oggi, come ieri, il lavoro è la base da cui ripartire non solo dal punto di vista economico ma soprattutto dal punto di vista sociale e civile.

Termino con un invito e un augurio.

L’invito è quello di fare quel viaggio che io ho fatto nella bambina che ero, rimettendomi in ascolto di quelle domande sospese che mi hanno spinto oggi a fare queste riflessioni. Le vicende del 21 e 22 luglio sono in qualche modo nel sangue e nella pelle di tutti noi carnici, e abbiamo il dovere di continuare a porci delle domande, perché solo continuando a porci le domande giuste ci possiamo avvicinare alla verità. Forse non la verità storica scritta nero su bianco, ma la verità che serve a ognuno di noi per rielaborare nel proprio vissuto personale queste vicende.

L’augurio è per tutti noi quello di avere nel nostro lavoro, qualsiasi esso sia, il coraggio che hanno avuto i martiri come mio nonno Alessio: ovvero il coraggio di lavorare anche nella tempesta, il coraggio di realizzare la propria persona attraverso il lavoro, il coraggio di pretendere che il lavoro sia davvero un diritto e, sempre, una espressione di libertà.

Grazie