Un ricordo di Federico Vincenti a cura di Flavio Fabbroni


Non è facile parlare di Federico Vincenti: non è facile perché, qualsiasi cosa si dica, sarà sempre inadeguata, di fronte a una personalità così forte, così ricca e così generosa; e ancora meno facile è parlare quando sei stato suo amico, perché il tuo cuore è ferito dalla perdita, e dalla consapevolezza che se ne è andato un protagonista assoluto di quella generazione che sta lasciando un vuoto incolmabile in chi crede nell’antifascismo, nella Costituzione, nella moralità dei comportamenti, nella libertà.

La lunga vita di Federico è stata estremamente complessa, densa di avvenimenti, ma contemporaneamente monolitica, tutta fondata sui medesimi valori da difendere, prima con le armi, poi con la parola, la scrittura, e anche con la legge quand’era necessario, perché il nemico erano prima i tedeschi e i fascisti, e poi il neofascismo, il revisionismo storico, la politica stessa, ogniqualvolta ha cercato e cerca di ottenere voti denigrando la Resistenza.

Non so nulla sui primi anni della sua vita; so che i suoi racconti cominciavano con una data, il 1940, l’entrata in guerra dell’Italia, quando lo ritroviamo diciottenne, arruolato come sottocapo meccanico nella Torpediniera “Sirtori”, nave risalente alla prima guerra mondiale e chiamata affettuosamente “Tre pipe” per i tre camini di cui era adottata.. Nella pancia di quella nave, fece la sua guerra nel Mediterraneo, con compagni, come li ricordava lui stesso, con le mani sporche di grasso ma tosti, con paura di niente. Lo dimostreranno nella primavera del ’43, quando a Taranto, in libera uscita, pesteranno per bene degli ufficiali tedeschi che volevano cacciarli da un locale pubblico che ritenevano esclusivo per loro.  Arrestati per insubordinazione, Federico fu sospeso dal PNF di Udine “in tempo indeterminato dai ranghi della G.I.L.”, come si legge in una lettera datata 17 maggio 1943, che termina con la parola “Vincere!”. Furono quindi relegati in un reparto speciale di militari in attesa di processo, dove li colse l’8 settembre 1943.  Lui  subito ne approfittò per iscriversi al P.C. d’I. alla federazione di Brindisi.

Una parentesi sul processo per aver picchiato gli ufficiali tedeschi: sospeso durante la guerra, sarà ripreso dopo la liberazione: Federico sarà condannato a un anno e sette mesi per insubordinazione con violenza (contro i tedeschi) e per diserzione (per aver combattuto contro i tedeschi !). Solo il 18 giugno 1956 sarà riabilitato dal Tribunale supremo militare di Roma: l’avviso della sentenza, firmato dal cancelliere capo  del Tribunale, terminava con queste parole: “Qualora voglia copia del relativo provvedimento, dovrà fare istanza su carta bollata da lire 400 ed inviare la somma di lire 490 per bolli e diritti”. È sempre la stessa Italia, vien da dire.

Ma torniamo ai giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943. Per quei marinai era arrivato il momento della scelta e dell’azione; ma gli alleati temporeggiavano, non vedevano ancora di buon occhio l’impiego militare al loro fianco dei soldati italiani. Solo nel marzo 1944 nascerà il CIL, Corpo Italiano di Liberazione.

Quindi Federico, con altri marinai, si presentò a Monopoli, in provincia di Bari, dove esisteva un comando dell’esercito popolare di liberazione jugoslavo; e lì si arruolò nella marina partigiana:  una flottiglia di piccole barche armate di mitragliatrice che navigavano nel dedalo delle isole tra Istria e Dalmazia, attaccando con tattiche di guerriglia imbarcazioni tedesche, presidi, e, anche, recuperando centinaia di soldati italiani sfuggiti al disarmo. Parteciperà alla liberazione di Zara e Fiume e la sua opera di combattente sarà riconosciuta con  l’Ordine della fratellanza e Unità con serto d’oro dalla Repubblica jugoslava.

Rientrò in Italia alla fine del ’45 insieme alla amata compagna della sua vita, Anna Jurinic, giovane partigiana conosciuta durante la guerra in Dalmazia. Anna morirà  due mesi prima di lui, il 27 giugno 2013.

Ma torniamo al dopoguerra. A Udine, Federico si iscrisse all’ANPI, Associazione alla quale dedicò la vita e della quale fu Presidente ininterrottamente dal 1964 alla morte.

Siccome bisognava anche mantenere la famiglia,  trovò impiego nella biblioteca civica di Udine, e anche questa scelta fu importante, perché lì nacque la sua passione archivistica  che, unita alla sua inflessibile volontà, lo portò a creare nell’Associazione un fondo di documenti e foto che nel 2010 è stato definito dalla  Soprintendenza archivistica per il Friuli Venezia Giulia “di interesse culturale” con queste parole: “Per  ragioni storiche, oltre che per la maggiore estensione territoriale della sua giurisdizione, il Comitato Provinciale dell’A.N.P.I. di Udine conserva il più ampio e il più rilevante tra gli archivi storici della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia”.

Anche questo è uno dei tanti meriti del nostro Presidente.

A un certo punto, però,  mi ha raccontato lui stesso, fu trasferito in altro ufficio del Comune, perché si erano accorti che faceva acquistare dalla Biblioteca Joppi troppi libri sulla Resistenza: questo, dati i tempi, non era politicamente corretto.

Federico non solo era conscio dell’importanza di documentare la storia del movimento di liberazione, ma in lui c’era anche la passione della ricerca, come dimostrano le sue pubblicazioni, in particolare sui  partigiani italiani all’estero, nei quali identificava l’autentico spirito di quell’Europa unita che purtroppo stiamo ancora sognando. 

Sue importanti ricerche sono state pubblicate nella rivista dell’IFSM e a cura dell’ANPI stesso.

Ma torniamo a Vincenti iscritto e poi presidente dell’ANPI.

I giovani non sanno cos’è stata la guerra fredda per donne e uomini della Resistenza, in particolare per i garibaldini, in questa regione dilaniata dalla questione del confine orientale: arresti, processi, persecuzioni, disoccupazione. E poi, quando il tormento giudiziario finiva, c’erano le “spese di mantenimento in carcere” per chi aveva subito arresti, che spesso portavano a sequestri nelle povere case di oggetti per la sopravvivenza e strumenti di lavoro.

Ebbene, in quei tempi duri Federico, aiutato da altri comandanti partigiani, percorse in lungo e in largo tutto il Friuli per aiutare, difendere, consolare i tanti perseguitati, e raccogliere offerte da chi poteva farlo.

Ancora negli ultimi anni, andare per i paesi con lui significava stringere in continuazione la mano a partigiani e familiari che gli esprimevano la loro stima e il loro affetto.

Era senz’altro il partigiano più amato di tutto il Friuli.

Quando i tempi migliorarono, l’attività dell’ANPI continuò nella difesa della memoria, che per Vincenti significava difendere il futuro. Nel senso che significava e significa pretendere un’Italia rispettosa dei valori della Resistenza: cioè l’onestà, la legalità, il rispetto delle regole. Questo i partigiani avevano il diritto di chiederlo, forti del fatto che la loro scelta  ha sempre voluto dire: “dare tutto senza aspettarsi niente”.

Ecco allora l’organizzazione di un numero enorme di cerimonie da realizzare ogni anno in tutto il Friuli in ricordo della Resistenza e dei partigiani, di tutti i partigiani, qualsiasi fosse il colore del fazzoletto che portavano al collo.

E poi il lavoro d’ufficio.

Poteva piovere, grandinare, nevicare, o si poteva soffocare sotto la cappa dell’afa insopportabile d’agosto: ebbene, la porta della sede dell’ANPI, in via del Pozzo, quindi in via General Baldissera, e poi in viale Ungheria n. 10, è sempre stata ed è sempre aperta.

Per chi entrava, la prima porta a sinistra portava nell’Ufficio: subito a destra la scrivania del Presidente, piena di libri e di carte; contro la parete di fondo quella del Segretario, Rapotez. La gente che veniva era numerosa: ricercatori, o parenti di partigiani che cercavano sui loro cari ormai deceduti quelle notizie che avrebbero potuto, nel passato, avere facilmente, solo se fossero stati a sentire le storie dei nonni o dei padri.

E poi bisognava rispondere alle lettere, e reagire alle provocazioni che la stampa spesso ospitava, di quei patetici nostalgici che pretendono magari d’aver difeso il confine orientale della Patria stando agli ordini dei tedeschi.

Anche la mattina dei funerali, nell’agosto del 2013, la scrivania di Vincenti era, come sempre, piena di libri e di carte e di ritagli di giornali. Nessuno aveva il coraggio di spostare uno spillo, e  il coraggio ci sarebbe mancato per un pezzo.

Noi dell’ANPI promettemmo allora che avremmo dato tutto il nostro impegno per tenere alto, anche nel futuro, il nome dell’Associazione che lui aveva diretto in modo così esemplare e che ci aveva lasciato così forte e vitale.