Ricordi di una piccola pagina della storia della Resistenza
Vissuta e scritta nella ricorrenza del 25 aprile 1996 da Rino Tonelli,
unica persona ancora vivente dei suoi compagni di prigionia.
Questa breve testimonianza di vita partigiana e’ dovuta a Rino Tonelli, appartenete alla famiglia friulana dei Tonelli che hanno fornito un contributo importante alla guerra di Liberazione, partecipando attivamente alla Resistenza non solo nel Friuli e, più in generale in Italia, ma anche in altri paesi europei. Il fratello dello scrivente Tonelli Vincenzo (Enzo) ha combattuto ininterrottamente, per oltre un decennio, il nazifascismo in Spagna, in Francia ed in Italia.
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Rastrellamento avvenuto la notte dal 1° al 2 febbraio 1945, mediante una retata, casa per casa, effettuata dai nazisti delle SS di stanza a Travesio ( Pordenone), con l’ evidente scopo di procedere all’arresto degli antifascisti e capi partigiani Vittorio Tonelli (Giorgio) e Vincenzo Tonelli ( Enzo) fratello dello scrivente. Nel corso di tale operazione venivano arrestati tutti i possibili Tonelli, trovati a sorpresa nelle abitazioni della piccola frazione di Davour La Mont del comune di Castelnovo del Friuli, frazione che diede peraltro i natali alla partigiana Virginia Tonelli ( Luisa ), catturata e fatta morire orribilmente verso la fine del mese di settembre 1944, nel campo di sterminio nazista della Risiera di S. Sabba a Trieste, successivamente decorata con la Medaglia d’ Oro alla memoria.
Verso le ore 21 del 1° febbraio 1945, la piccola frazione di Davour La Mont del comune di Castelnovo del Friuli, formata da undici abitazioni con annesse piccole stalle per gli animali, posta in cima ad una collinetta, veniva improvvisamente circondata da una quarantina di soldati tedeschi delle SS, armati di mitragliette e bombe a mano, con dei grossi cani anti-uomo. Quella sera faceva molto freddo. Per terra c’era la neve caduta qualche giorno prima. Per raggiungere la frazione di Davour La Mont (attualmente completamente distrutta dal terremoto del 1976), bisognava camminare a piedi attraverso sentieri ( trois ) dissestati ed in salita. Infatti, per arrivarci, anche una semplice bicicletta doveva essere portata a spalla. In tale frazione, che per la sua ubicazione era ritenuta un luogo sicuro, in casa della partigiana Luisa, molto spesso si incontravano Comandanti delle varie formazioni partigiane dell’ Alto Friuli. La sera del 1° febbraio è apparso a tutti noi strano che i tedeschi, in simile numero, abbiano potuto raggiungere tale località senza essere notati dalle staffette partigiane, generalmente sempre molto vigili ed operanti. Ma, con tutta evidenza, i Nazisti, a conoscenza dei sentieri, con la neve che attutiva i rumori e all’ ora di cena, da Travesio a piedi attraverso strade e sentieri situati nei boschi, hanno raggiunto direttamente la frazione di Davour La Mont, cogliendo tutti di sorpresa.
A casa mia in quel frangente, oltre a mio padre Vincenzo, c’ era mia madre Angela, mia sorella Anita, di anni 16, mio fratello Ernesto di anni 18, ed io di anni 20. Avevamo cenato da poco e ci si accingeva ad andare a dormire.
Io raramente dormivo a casa. Il comando partigiano mi aveva assegnato ad un servizio di collegamento fra le varie formazioni partigiane della Zona Libera della Carnia. I primi tempi svolsi tale servizio in bicicletta , ma poi verso il mese di giugno 1944, mi fu assegnata una moto Guzzi 500, diventata anche, in una particolare circostanza, bersaglio di una mitraglia nazista. In quell’ occasione a mala pena riuscii a salvarmi in una galleria di montagna. Comunque, in casa non si teneva mai nulla che riguardasse la guerra di liberazione in corso, salvo casi eccezionali e sempre nella massima sicurezza.
Quella sera sentii improvvisamente un rumore, prodotto dagli scarponi degli uomini delle SS, che camminavano sui ciottoli dietro casa nostra. Capii subito di cosa si trattava, come capirono anche gli altri della mia famiglia, per cui tentai la fuga. Mi infilai di corsa attraverso un piccolo sentiero situato tra gli alberi vicino casa. Percorso tale sentiero, entrai, sempre al volo, nella casa di Umberto Tonelli ( fratello della Virginia ) in quanto sul retro del fogolar di questa casa esisteva una porta di uscita che dava direttamente nel bosco, dove avrei potuto dileguarmi. Non feci però in tempo ad uscire da quella porticina, in quanto subito dietro di me entrarono in casa due uomini delle SS che bloccarono tutti.
Nel frattempo gli altri tedeschi delle SS perquisivano tutte le abitazioni. Fatto sta che in poco tempo ci siamo trovati raccolti, sotto stretta sorveglianza, con le mitragliette spianate contro di noi, in un piccolo spiazzo della frazione, che noi chiamavamo “cima la via”. In questo spiazzo erano stati raccolti tutti i possibili Tonelli trovati nelle case e cioè:
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mio padre, Vincenzo Tonelli, di anni 60, padre, tra l’ altro del comandante partigiano Enzo ( Vincenzo Tonelli );
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mio fratello Ernesto Tonelli, di anni 18;
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Umberto Tonelli, di anni 49, fratello della partigiana Luisa ( Virginia Tonelli);
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suo figlio Mario Tonelli, di anni 17;
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Ugo Tonelli, di anni 24, fratello del comandante partigiano Giorgio ( Vittorio Tonelli);
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suo fratello Oreste Tonelli, di anni 22;
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lo scrivente, Rino Tonelli.
Questo gruppo di Tonelli era pertanto formato da sette persone.
Dopo averci condotti tutti in “cima la via” hanno effettuato un sommario controllo con perquisizione personale. Le donne della famiglia, pur terrorizzate e piangenti, avevano provveduto, nel frattempo, a portarci qualche indumento onde ripararsi dal forte freddo. Circa un’ ora dopo venivamo tutti messi in fila indiana, con uno di noi ed uomo delle SS, con davanti e dietro a tutto il gruppo i restanti nazisti con i loro grossi cani anti-uomo. Così si è cominciato a camminare attraverso il sentiero da noi denominato culaar, in direzione della borgata Franz, dove siamo giunti dopo circa tre quarti d’ ora di marcia. In genere quel tratto di strada veniva percorso dagli abitanti della zona in circa venti minuti, ma i nazisti quella sera, data anche l’ oscurità, erano obbligati a camminare passo passo, su un sentiero peraltro molto impervio.
E’ poi successo che a circa metà strada tra la borgata di Davour La Mont e quella di Franz, all’altezza del ponte della frazione di Oltrerugo, mio padre Vincenzo, che parlava bene oltre al francese anche la lingua tedesca, per aver lavorato prima della guerra alcuni anni in Germania, convinse l’ ufficiale delle SS, che comandava l’ operazione di rastrellamento, a lasciarlo libero, per cui poteva tornare a casa.
In questa circostanza mio fratello Ernesto ed io, presenti nel gruppo degli arrestati, abbiamo subito provato un forte sollievo perché nostro padre, dal fisico molto invecchiato dal lavoro, non era piu’ in grado di sopportare come noi le conseguenze di un simile arresto, pertanto la sua libertà ha fatto nascere in noi tutti anche un filo di speranza.
Nella borgata di Franz, nota perché tutti i giovani militavano nelle formazioni partigiane, noi, sempre sotto stretta sorveglianza, eravamo fermi in strada, non potendo mai muoversi dal nostro posto, mentre parte dei tedeschi delle SS perquisivano le case di quella frazione. Ma non trovarono nessun uomo da portare via. Evidentemente le staffette partigiane, sempre presenti, avevano già provveduto ad informare la gente di quanto stava accadendo. Dopo qualche sosta per strada, verso l’ una di notte raggiungemmo il paese di Travesio. I tedeschi ci condussero nel centro del paese dove avevano i loro accampamenti. Per strada a quell’ora non c’era anima viva, salvo altri nazisti incontrati vicino alla casa dove i tedeschi ci condussero. Appena arrivati nella casa, che poi era una stanza la quale doveva essere la nostra prigione (attualmente tale casa e’ stata demolita e sulla stessa area di questa e’ sorta una villetta), i tedeschi ci perquisirono nuovamente, togliendoci tutto quello che avevamo addosso, comprese la cinghia dei pantaloni ed i lacci delle scarpe. Questo avvenne in una stanzetta del piano terra della casa. Poi cominciarono subito gli interrogatori. Il primo ad essere interrogato nell’ufficio del maggiore delle SS fui proprio io. Tale ufficio, si trovava in una stanza di un’ altra casa (questa è ancora in piedi) poco distante, posta sulla stessa via, ma dal lato opposto.
Giunto in tale ufficio ho trovato un maggiore delle SS seduto ad un tavolo sul quale, oltre a diversi incartamenti, c’ era anche una pistola a canna lunga a portata della sua mano destra. Vicino al maggiore si trovava seduto un uomo dell’ apparente eta’ di anni 35, molto alto e robusto che poi ho capito fungere da interprete.” Radio scarpa” ci ha poi informati che tale uomo era di Sequals, paese del nostro pugile Carnera. Nell’ angolo sinistro dell’ufficio, di fronte al maggiore, c’era un militare tedesco con la tuta mimetizzata con al suo fianco, seduto sulle gambe posteriori, un grosso cane antiuomo.
Cominciò l’ interrogatorio. L’ ufficiale faceva le domande in lingua tedesca, l’ interprete le traduceva in italiano, io rispondevo. Tra l’ altro mi chiesero: in quanti fratelli siete? A questa domanda risposi: cinque fratelli. In effetti eravamo in sei maschi. Volevo però escludere mio fratello Enzo, in quanto sapevo essere molto ricercato, perché comandante di formazioni partigiane. Conosci Vittorio Tonelli (Giorgio), noto organizzatore delle formazioni partigiane garibaldine? Risposi di non conoscerlo. ”Conosci Vincenzo Tonelli ( Enzo, mio fratello)? ” Non lo conosco” . Mi furono rivolte tante altre domande sui nostri partigiani, ma io rispondevo di non averli mai visti. Sapevamo tutti che se uno diceva di sapere qualcosa o di conoscere qualcuno era la sua rovina, sarebbero infatti cominciate le torture. Finito il primo interrogatorio nella stessa notte, mi riportarono nella stanza dove erano tutti gli altri in attesa di essere interrogati. Appena dentro nella stanza, per un attimo mi sono trovato dietro agli uomini delle SS: mio fratello Ernesto mi guardava negli occhi, di fronte a me. Alzai la mano destra, sopra la testa di un tedesco, come per salutare mio fratello, facendo però capire che volevo indicare il cinque. Questi capì. Infatti lui venne interrogato subito dopo di me e, per fortuna, disse anche lui che eravamo in cinque fratelli maschi e, se pur terrorizzato, se la cavò abbastanza bene, senza ricevere delle botte e senza l’ intervento del cane lupo.
Gli interrogatori di tutti finirono, senza gravi conseguenze verso le ore tre del mattino. Poi, sempre sotto il tiro delle armi, ci portarono in una stanza del primo piano dello stesso fabbricato. Ci buttarono dentro come delle bestie. Era molto buio. Avevamo paura anche di parlare fra di noi. Mio fratello Ernesto, dal carattere mite e buono, mi stava vicino e piangeva in silenzio. Eravamo tutti in piedi, uno vicino all’altro. Eravamo tutti in piedi, uno vicino all’ altro. Passati alcuni attimi in quelle condizioni, nel buio intenso, si è sentito il respiro di una persona provenire da un angolo della stanza. In un primo momento abbiamo pensato che si trattava di un soldato nazista messo lì per spiarci, per cui non abbiamo osato avvicinarsi subito. Però, dopo circa una quindicina di minuti, mi avvicinai ed in italiano chiesi chi era. In friulano mi rispose che era il “Mario di Vigna”. Si trattava del partigiano Mario Del Frari che allora aveva 18 anni, della frazione di Vigna, sempre del comune di Castelnovo del Friuli. Questi, proprio in seguito ai duri maltrattamenti ricevuti durante gli interrogatori, finita la guerra, venne riconosciuto come malato di cuore. Morì poi abbastanza giovane.
Successivamente, saranno state forse le quattro del mattino, mezzi morti dalla stanchezza e pieni di freddo, ci sdraiammo sul nudo pavimento, uno vicino all’ altro per tenerci un po’ caldi. Non ricordo se ho preso sonno. Ricordo solo che “Berto”, fratello della partigiana Virginia -uomo con molta esperienza e pieno di giudizio, incapace di far del male ad una mosca- ci raccomandava di comportarci bene nonostante tutto. Ci diceva anche che lui i “muchs” ( i tedeschi) li aveva già provati durante la guerra 1915-1918. Il Berto era infatti della classe 1896 e poteva quindi essere il padre di tutti noi.
Dopo tutto quanto era già successo, quelle prime ore passate nel buio di quella stanza, per me, come per tutti gli altri, sono state comunque ore di angoscia. Il mio pensiero era rivolto alla mia povera mamma, che nella vita aveva solo sofferto e lavorato, da un buio all’ altro, per allevare la sua numerosa famiglia. Undici figli, due figlie morte all’età di due anni con la “spagnola”, nel corso della prima guerra mondiale. Due suoi figli maschi, diceva sempre, quasi con orgoglio, avevano compiuto tredici anni a Parigi, già impegnati nei cantieri edili insieme a nostro padre. Io quella notte, prigioniero di quella gente, pensavo che in seguito avrei dovuto morire, perché quella era la fine che le truppe tedesche facevano fare ai loro prigionieri. Ma mi assillava un solo pensiero e cioè che a morire saremmo stati in due fratelli. Sarebbe stato un colpo troppo grande da sopportare per la mia povera mamma. Quella notte non credo di aver dormito, ma ho solo riposato. All’alba finalmente potemmo guardarci in faccia e capire com’era composta la nostra “prigione”. Si trattava di una piccola stanza,composta da quattro muri, il pavimento, il soffitto ed una finestra che dava sulla strada. Ancor oggi, dopo cinquanta anni (quaranta dei quali passati in “Polizia”), il buio mi produce molta tristezza, anche perché in queste condizioni rimanemmo per quindici giorni.
Gli interrogatori si ripetevano due volte al giorno, con inizio verso le 9 del mattino, e verso le 16 del pomeriggio. Tra di noi si facevano delle piccole scommesse a chi toccava per primo. Duravano circa una ventina di minuti ciascuno. Eravamo tutti d’ accordo e si rispondevano sempre le stesse cose.
Il giorno seguente al nostro arresto, veniva tolto dalla nostra stanza il Mario Del Frari per essere rinchiuso in un’ altra stanza dello stesso fabbricato ed essere messo in compagnia di un altro giovane arrestato. Ricordo di aver visto quest’ ultimo con vistose fasciature alle braccia, conseguenti ai morsi ricevuti, durante gli interrogatori, dal grosso cane lupo dei tedeschi. Era il partigiano Aldo Simonitti. Allora aveva 26 anni ed abitava nella frazione di Oltrerugo. Nella nostra cella rimanemmo pertanto solo noi sei, tutti Tonelli dai 17 ai 24 anni, ad eccezione di Umberto che ne aveva 49.
Dai tedeschi non ci veniva dato né da mangiare, né da bere. Per il bere, comunque, si arrangiava in qualche modo, approfittando delle volte in cui venivamo accompagnati al gabinetto. Eravamo giovani, ma già molto provati dalla vita, tanto da essere in grado di sopportar , senza grossi traumi, la fame, la sete, il freddo e tutte le angherie cui eravamo sottoposti in quei giorni, specialmente durante gli interrogatori. Personalmente ero abituato a ben più grandi difficoltà. Ero partigiano ormai da diverso tempo e molte volte durante i rastrellamenti che i tedeschi riuscivano a fare, quando non c’ era la possibilità di infilarsi in qualche stalla di montagna, si dormiva sotto i pini, all’ aria aperta. Se della mia famiglia fossi stato il solo nelle mani dei tedeschi, avrei sofferto molto meno, ma avendo con me anche mio fratello Ernesto, più giovane e con meno grinta, mi preoccupavo molto per lui. Infatti durante gli interrogatori, chiedevo al maggiore delle SS di lasciare libero mio fratello e di fare di me quello che voleva. Ci sono stati momenti nei quali percepivo che non avrei sentito su di me nessun male fisico. Tutte le altre minacce che mi venivano rivolte durante gli estenuanti interrogatori- lo dico ora perché lo ricordo bene- non mi facevano né caldo né freddo. Se dietro di me non avessi avuto nessuno a soffrire, morire sarebbe stato un sollievo.
Come detto era stato dato l’ordine di non darci né da mangiare, né da bere, fino a quando non si rispondeva positivamente alle domande nel corso degli interrogatori, e cioè fino a quando non si dicevano nomi e cognomi di partigiani e dove si trovavano.
Nel frattempo però le nostre donne non erano rimaste con le mani in mano. Allo scopo di non vederci soffrire tanto la fame, erano riuscite ad avvicinare ed a conoscere un maresciallo delle SS di Bolzano, il quale parlava anche la lingua italiana. Tale maresciallo faceva parte del presidio tedesco di Travesio. Ricordo che era un uomo piuttosto anziano. Questo contatto si è verificato anche con l’ aiuto delle donne del luogo. Successe poi che la moglie del nostro compagno di prigionia Berto e mia sorella Anita riuscirono a far capire all’ anziano maresciallo che loro volevano portarci da mangiare, altrimenti noi morivamo di fame.
Questi, dopo aver fatto capire alle due donne del pericolo cui lui stesso andava incontro, si accordò affinché queste portassero il mangiare in una casa situata vicino al posto dove noi eravamo trattenuti. Poi lui di notte, quando era il suo turno di guardia, ce lo avrebbe portato sopra. Difatti ogni due o tre sere ci arrivavano da casa viveri sufficienti per tirare avanti. Si mangiava tutto perché non dovevano rimanere rifiuti. Eventualmente piccoli rifiuti venivano messi nelle tasche e poi rifilati nello scarico dei gabinetti, dove, in caso di bisogno, venivamo accompagnati dalla guardia armata che sostava sempre sulla porta della nostra prigione. Però col mangiare era sorto per noi un problema. Si aveva il timore che il maggiore che ci interrogava, si accorgesse che qualcosa si doveva pur mangiare: altrimenti un giovane di venti anni come fa a stare in piedi dopo dieci giorni senza mangiare sottoponendosi a simili interrogatori? Perciò eravamo comunque in condizioni fisiche debilitate, ma abbiamo pensato di tenere un comportamento che apparisse ancora più debilitato di quello che in effetti era. Si andava agli interrogatori camminando faticosamente. Ricordo che alla fine le domande più imbarazzanti non le sentivo, o fingevo di capire fisco per fiasco.
Il maggiore, dopo una decina di giorni, non riuscendo a cavare da noi un bel niente, era diventato più cattivo del solito.
Un pomeriggio, mi interrogò con la pistola puntata verso di me, tirando avanti e indietro il carrello mostrandomi che la pallottola era in canna. Io lo guardavo quasi con indifferenza. Davo risposte sempre più o meno uguali alle sue domande. Allora si alzo incazzato, cercando di darmi una sberla che io, d’ istinto, evitai. Mi prese allora per la manica della giacca e mi lanciò verso la porta, che in quel momento era aperta. Sotto la spinta feci tutto un volo, passando fra le due guardie armate che sostavano in permanenza appena fuori della porta ed arrivai fino a quella vicino alla strada. Per un attimo pensai di fuggire. Ma non ce l’ avrei fatta, perché sarei stato falciato dai mitra delle guardie. Ma a me non mi interessava di morire. Mi ha però fermato la consapevolezza che poi gli altri miei compagni di prigionia avrebbero fatto senz’ altro una brutta fine, soprattutto mio fratello Ernesto. Tornai quindi sui miei passi, le due guardie SS mi presero e mi ricondussero in ufficio davanti al maggiore, con vicino a lui sempre lo stesso interprete e con nell’ angolo sempre il grosso cane con relativa guida ( di un soldato tedesco ). Il maggiore si era un po’ calmato e continuò col solito interrogatorio che ormai sapevo a memoria.
Personalmente ho avuto l’ impressione che i tedeschi di quel presidio avessero avuto una certa paura ad usare nei nostri confronti mezzi di tortura durante gli interrogatori. Era evidente che per loro la guerra era ormai persa ( eravamo infatti nel febbraio 1945 ) e che quel territorio era ormai sotto la protezione delle formazioni partigiane. A noi, sempre con insistenza, chiedevano, tra l’ altro, di indicare loro i nominativi di partigiani ed i luoghi dove si trovavano. Mentre noi, che stavamo sempre, l’ uno o l’altro, tutto il giorno alla finestra della prigione che dava sulla strada principale di Travesio, molto spesso vedevamo transitare sulla strada carri trainati da cavalli, carichi, in apparenza, di fieno o paglia, condotti sempre da partigiani, che poi ritornavano indietro vuoti.
Durante tutto il periodo della nostra prigionia, nella zona non si è verificato nessun attacco da parte delle formazioni partigiane.
Penso che se ciò fosse accaduto, per rappresaglia sarebbe stata la nostra fine. Ringrazio ancora oggi i comandanti partigiani di allora per aver preso decisioni così sagge.
Dalla nostra prigione, verso le ore 10 del mattino, vedevamo quasi ogni giorno dalla finestra, mia sorella Anita, camminare sulla strada, fermarsi e guardare verso di noi. Uno alla volta la dovevamo salutare per tranquillizzarla e farle capire che eravamo ancora vivi. Ricordo che spesse volte Anita in tali circostanze indossava una maglia di lana rossa e ciò faceva arrabbiare il nostro compagno di prigionia più anziano Berto, in quanto diceva che i nostri carcerieri, quando vedevano il colore “ rosso “ diventavano cattivi.
Dopo circa dieci giorni di prigionia eravamo in condizioni fisiche da fare spavento: senza mai potersi lavare la faccia, dovendo dormire per terra con i pochi vestiti che si aveva addosso, nel freddo intenso. Noi giovani eravamo con quella poca barba che diventava sempre più lunga, e si sopravviveva con quel poco che ci arrivava da casa, grazie a Dio, ma si doveva poi aspettare per mangiare il turno di notte del maresciallo Bolzanino. In gabinetto, quando era possibile, venivamo accompagnati da un soldato delle SS. Fatto sta che le nostre condizioni sempre più stremate, evidentemente avevano messo in allarme anche il maggiore tedesco che due volte al giorno, imperterrito, ci interrogava. Difatti, dopo oltre dieci giorni di prigionia, con grande sorpresa vediamo arrivare nella nostra stanza due soldati tedeschi con una “terrina” abbastanza grande, piena di rigatoni apparentemente ben conditi con salsa al pomodoro. Ci consegnarono la “terrina” e se ne andarono, chiudendo come sempre la porta a chiave. Noi, comunque, sempre pieni di fame, con le mani, abbiamo cominciato subito a mangiare. Ricordo bene, ancora oggi, questo momento, poiché sono fatti che, nella vita, non si possono dimenticare. Mangiare quella pasta era come mangiare sale nudo in una ciotola. I primi due-tre pezzi sono andati giù in gola senza che ci accorgessimo, per la fame, del gusto salato. Poi tutti ci siamo fermati ed abbiamo ragionato sul da farsi. Abbiamo poi deciso che, comunque, un po’ ciascuno quella pasta la dovevamo mangiare, soprattutto per far intendere al maggiore SS che ci interrogava, che la fame c’era e che noi non venivamo alimentati per vie diverse. Questo anche per non causare seri guai al maresciallo delle SS di Bolzano.
Passarono in tutto diciotto giorni. Finalmente venne il giorno della nostra liberazione. Era la domenica del 18 febbraio 1945, ed era anche una bella giornata di sole. Stando, come al solito, sulla finestra della stanza adibita a nostra prigione, vedo arrivare, verso le 10, dalla strada proveniente da Spilimbergo, in bicicletta, mia cognata Luisa Zannier.
Allora aveva 29 anni, e risiedeva a Baseglia di Spilimbergo. Attualmente, completamente invalida, risiede ad Arcisate di Varese, presso una figlia.
Mia cognata aveva lavorato per diverso tempo, prima della guerra, in Germania, con il marito Giovanni. E’ una donna originaria di Pradis del comune di Clauzetto, molto nota per il suo attaccamento al lavoro ed alla famiglia, dal carattere forte e deciso. Sapeva parlare bene la lingua tedesca. Noi l’ abbiamo notata, ci siamo rincuorati, perché abbiamo pensato fosse la persona giusta per ottenere dal maggiore qualcosa di buono. Giunta in prossimità dell’ ufficio del maggiore delle SS l’ abbiamo vista appoggiare la bicicletta al muro di cinta ed entrare poi nell’ ufficio. Ci disse poi che in ufficio, dopo una animata discussione riguardante le nostre condizioni di salute, chiese, senza mezzi termini, al maggiore delle SS la nostra liberazione. Ricordo di averla poi vista uscire dall’ ufficio con il maggiore delle SS in perfetta uniforme, camminare davanti a lei che continuava a parlargli. Questi, evidentemente, non voleva sentir ragione e lei, per farsi ascoltare, lo afferrava per la manica della giacca trattenendolo. In questa circostanza le due guardie, sempre presenti all’ ingresso dell’ ufficio che potevamo scorgere dalla nostra finestra, mostravano un atteggiamento piuttosto allarmato. Noi tutti rimanemmo sorpresi nel constatare il fermo e coraggioso atteggiamento di mia cognata Luisa nei confronti del maggiore delle SS, tanto da pensare che correva anche lei il rischio di farsi arrestare.
Dopo un po’ però, mia cognata, facendoci un cenno di saluto con la mano, ha ripreso la bicicletta ed è ripartita in direzione di casa sua. Già quella mattina si saltò il solito interrogatorio.
Verso le 11.30 successive entrarono nella nostra prigione due soldati tedeschi con il maggiore delle SS. I due soldati avevano tra le mani, i nostri portafogli e tutto quanto ci era stato sequestrato all’ atto dell’ arresto. Ci consegnarono ad ognuno di noi la nostra roba. Il maggiore ci raccomandò, a suo modo, di non andare con i “partigiani” e di collaborare con loro, dicendo che lui ci lasciava liberi. Ci fece accompagnare da due militari delle SS fino sulla strada, mettendoci finalmente in libertà. Eravamo in sei, sporchi, malvestiti e con la barba lunga, per cui abbiamo pensato subito di non camminare in paese tutti assieme, perché l’ incontro con una eventuale pattuglia tedesca poteva diventare pericoloso ed essere subito ricondotti al comando SS. Difatti lasciammo il paese in ordine sparso, ci trovammo tutti solamente dopo aver passato il ponte sul torrente Cosa, situato in prossimità della piazza principale di Travesio.
Passato tale ponte ci siamo sentiti finalmente liberi. I tedeschi non andavano quasi mai oltre quel ponte perché per loro sorpassarlo diventava pericoloso.
Tutti si riprendeva la lotta per la liberazione, ormai sempre più vicina. Dopo qualche giorno gli uomini delle SS di stanza a Travesio venivano attaccati dalle forze partigiane e, successivamente, furono obbligati a lasciare il paese e concentrarsi a Spilimbergo.
Durante la nostra prigionia ci fu anche l’ intervento a nostro favore del parroco della chiesa di Vigna di Castelnovo del Friuli, Don Luigi.
A noi, però, non fu data la possibilità di parlare con nessuno.
Rino Tonelli