PER UN PUGNO DI TERRA SLAVA di Paolo Petricig
recensione a cura di Carlo Baldassi , comitato direttivo Anpi “Città di Udine”
Questo saggio ripropone un testo già pubblicato a fine anni ’80 che raccoglieva una serie di articoli di Petricig usciti su Novi Matajur (la prefazione era di M.Lizzero).
Non è un lavoro da storico (come sottolinea lo stesso A.) ma lo potremmo definire un racconto popolare che si incentra sulle vicende di una minoranza nella minoranza di cui Petricig faceva parte con orgoglio: gli ‘sloveni italiani’ delle Valli del Natisone e del Torre durante e dopo la lotta di Liberazione dal nazifascismo.
E’ ben nota a noi friulani la difficile situazione delle popolazioni di quelle valli periferiche povere in tutti i sensi e che subirono – come le altre minoranze – le violenze del fascismo. L’opera di italianizzazione delle valli della Benecja friulana (aggiungiamo anche Resia e parte della Valcanale) ebbe infatti uno sviluppo particolarmente oppressivo quando il regime di Mussolini volle impedire ogni forma pubblica di espressione di altre culture e lingue minoritarie (‘gli alloglotti’). Così avvenne nel Sud Tirolo verso i tedeschi locali e nella Venezia Giulia e in Istria verso sloveni e croati.
Con l’8 settembre 1943 si apriva un contesto nuovo e promettente, grazie al fatto che nelle zone slovene oltre il confine operavano da due anni le formazioni partigiane dell’OF che si muovevano tacitamente già nell’ottica dell’annessione di quelle terre mistilingui alla nascente Jugoslavia socialista.
Petricig richiama a questo punto il difficile confronto in merito al futuro confine tra la resistenza slovena (parte dell’esercito popolare di Tito) e quella italiana (con storie e posizioni diverse). Queste difficoltà coinvolgevano in particolare il PCI internazionalista che -schierato sin dagli anni ‘30 su posizioni di autodeterminazione nelle zone mistilingui europee – si trovò a confrontarsi (e in parte a subire) con certo neonazionalismo comunista jugoslavo. Verso sloveni e croati oppressi dal fascismo il PCI riconosceva infatti la necessità di risarcimenti (anche territoriali) ed aveva una generica sintonia ideologica, ma permanevano anche differenze di contesto e di cultura politica. Infatti il PCI – stava elaborando la ‘democrazia progressiva’ come fase intermedia verso un ‘socialismo italiano’- mentre faceva parte del CLN pluripartito e – dalla primavera 1944 – era entrato nel governo Bonomi che operava a fianco degli angloamericani. Inevitabili alcune contraddizioni…
Con il crollo del regime fascista si vennero formando anche in Friuli alcune formazioni garibaldine (il primo distaccamento già in marzo ad opera di M.Lizzero sul Collio grazie al supporto dell’OF) a cui seguirono a fine anno GL e Osoppo anche in pianura. Parallelamente si espandeva la guerriglia degli sloveni contro i nazifascisti ma essa nella Benecja friulana ebbe caratteristiche evolutive particolari. All’inizio – scriveva Petricig – contrariamente alle aspettative dei capi partigiani sloveni- l’adesione da parte dei giovani benecjani non fu immediata e convinta e dovette essere ‘conquistata’. Tre le ragioni riportate da P.: l’assimilazione italiana di decenni pesava, era ancora carente l’organizzazione partigiana slovena, da cui però emergeva a tratti una certa faziosità ideologica a volte anche antireligiosa .
Questa situazione rendeva precario l’incontro dei partigiani comunisti sloveni con popolazioni rurali socialmente tradizionaliste e legate al cattolicesimo (niente di strano se consideriamo che nel dopoguerra la DC sarà elettoralmente molto forte nelle Valli – nota mia cb). Petricig richiama al proposito (pag.47) un documento jugoslavo che ancora a fine 1944 – diceva all’incirca: ’La Benecja è slovena di lingua, italiana di spirito e sentimenti’.
Tuttavia – grazie a una crescente comprensione reciproca e capacità organizzativa – dall’inizio 1944 era cominciata una certa adesione di partigiani benecjani alle formazioni garibaldine o filoslovene (beneska ceta) che operavano nelle Valli, fornendo un notevole contributo alla lotta contro i nazifascisti che risalivano dalla pianura friulana. La comunanza linguistica e di vita quotidiana tra i due rami sloveni (poche le differenze) favorirono dunque via via una migliore adesione politica dei benecjani che ritrovavano finalmente loro proprie strutture culturali (scuole e teatri in lingua materna) rinsaldando progressivamente i legami con l’OF.
Nel contempo però venivano al pettine le differenti prospettive confinarie – non solo tra sloveni e italiani in generale – ma anche tra i partigiani garibaldini da una parte e quelli badogliani e osovani dall’altra. Nonostante alcuni importanti episodi di lotta comune (es. nella repubblica partigiana della Carnia in estate 1944) i rapporti erano inquinati sia da certe rigidità ideologiche dei primi sia da alcune speculari ambiguità dei secondi contrari alla revisione dei confini del 1918. Lo ricorderà più tardi don L.Moretti- ‘Aldo’ – massimo dirigente della Osoppo (v.pag.108) – così che quelle differenze portarono anche alla tragedia di Porzus.
E arrivarono i giorni della Liberazione, che non fu una passeggiata: nazisti e cosacchi lottavano per la vita mentre molti repubblichini anche attori di fucilazioni antipartigiane (Xa Mas, Batt.Tagliamento ecc) ‘sbracavano’ dileguandosi o cercando ipocritamente una nuova verginità nella Osoppo (e presto anche in formazioni anticomuniste tipo Gladio). Nei centri urbani maggiori (Cividale e Tarcento) arrivarono per primi i partigiani italiani mentre quelli sloveni arrivavano nelle località minori, tutti seguiti dagli inglesi che il 1° maggio entravano a Udine.
Ma la fine della guerra portò nuove tribolazioni ai partigiani benecjani che si trovarono di fatto in ‘prima linea’ nella nascente guerra fredda. La repressione giudiziaria e politica dei governi centristi contro i garibaldini – accusati di uccisioni ‘non in zona di guerra- si riversò anche su quelli che operarono nella beneska ceta o nell’OF (‘slavocomunisti’), che dal 1945 l’Italia ‘occidentale’ considerava il nuovo nemico dell’est. Buona parte degli accusati fu assolta o amministiata ma molti subirono ingiusti anni di galera (mentre caporioni fascisti se la cavavano con poco). In quel clima difficile le decisioni confinarie videro più fasi attorno alla linea Morgan e col trattato di Parigi nel febbraio 1947 vennero create la definitive zona A (il TLT) e la zona B (Istria e Fiume), sostanzialmente il confine che fu sancito a Osimo nel 1975. Oggi le valli benecjane sono purtroppo ancora più periferiche e spopolate anche se i nostri due paesi sono amici ed entrambi nell’UE, ma i ricordi di quegli anni servono ai giovani perché guardino avanti.