Orazione di Toni De Lucia alla cerimonia di Pagnacco del 17 settembre 2017


Cittadini, compagne, compagni , amici,

oggi contiamo 72 anni da che il nostro paese; grazie all’intelligenza, al sacrificio e alla ricchezza spirituale di uomini giovani e meno giovani che si spesero con tutte le loro energie, uscì da quella tragica avventura che furono il fascismo ed il nazismo. 72 anni corrispondono alla mia età, 72 anni da quando mio papà, come le altre decine e decine di migliaia di deportati politici e non, furono liberati dai campi di concentramento e di sterminio sparsi per l’Europa.

Rimarco questo 72 non perché sia un anno particolare; infondo non è che uno in più di 71 e uno in meno di 73, ma per il fatto che, quando parlo con i ragazzi della storia di allora, di quella che fu la lotta di liberazione, delle vicende raccontatemi da mio padre, delle mie esperienze giovanili nel mondo del lavoro e nelle attività politiche, loro, i ragazzi, non ghignano per rispetto ma , vivendo di questa società informatizzata, che non è un male, ma avvelenata da revisionismi, banalizzazioni e falsificazioni storiche, ritengono noi, non già appartenenti ad una altra epoca ma addirittura ad un altro pianeta. Le infide forze scatenate dalla finanza globalizzata, dai nuovi aspiranti padroni del mondo vogliono far loro credere che sia giunto il momento di tirare una riga, di ritenere la memoria quasi un delitto: ma che volete, rivangare il passato, parlarne, è una perdita di tempo, nazisti, fascisti, comunisti, erano tutti uguali. Infami.

Ragazzi: vi stanno dicendo che i frutti raccolti dal ciliegio bicentenario non sono buoni, sono frutti vecchi che appartengono al passato.

Ma essi dimenticano che noi siamo i rami, i virgulti, i frutti di quella straordinaria pianta che affondando le sue radici nel terreno dell’eguaglianza, della giustizia, della libertà, ha saputo resistere a ostilità e cesure storiche passando attraverso violenze disumane, repressioni e guerre mondiali di inaudita ferocia che come procelle hanno tentato di sradicare: ma noi siamo ancora qui, noi e loro, i nostri compagni caduti, e non solo per resistere, ma perché questa straordinaria pianta possa alzarsi ancor di più e riempirsi di frutti nuovi e succosi ad ogni stagione.

Il vento della storia ha divelto le loro creature, ma…, ma questo non ci garantisce la tranquillità, poiché, come tutti sanno, le malepiante non muoiono mai, esse pure spargono semi che ovviamente cercano la luce. 1

Perdonate questi miei guizzi esemplificativi botanici, ma nella complessità e confusione della politica attuale (opera essenzialmente di distrattori di massa) , mi par di capire che troppi hanno dimenticato o volutamente scordato il significato, il valore linfatico –anche se metaforico– del termine radice, e l’affrontare nei termini propri i particolari che ci assillano finiremmo in un turbinio dialettico che non farebbe certo onore a questi uomini, questi partigiani, che seppero intravvedere ed affrontare la giusta strada in una situazione assai più disgraziata e confusa della nostra.

Noi: siamo qui credo, non già per ricordare, ma bensì per rinnovare il nostro impegno nella salvaguardia di quei valori per i quali tanti di loro spesero la vita; pensando al futuro, a noi, e solo così noi potremmo onorare il loro sacrificio.

Rinnovare il nostro impegno consci che, per salvaguardare la pace bisogna lottare, lottare per difendere le libertà civili, lottare per il diritto al lavoro- elemento primario per salvaguardare la propria dignità, lottare per difendere i diritti degli uomini tutti, perché non vi potrà mai essere tranquillità se chi vive al di là della nostra siepe è ridotto alla disperazione, mortificato nell’anima e nel corpo, lottare come i nostri padri lottarono e dimostrarono che “se un popol vuole un popol può”

Questa frase l’ho presa in prestito da un intelligente, prolifico quanto sconosciuto scrittore risorgimentale che la vergò nel 1860 ~ : Giuseppe Rovani.

Rinnovare il nostro impegno; la nostra pianta è ancora viva ed è oggi l’unica risorsa che può fornire una difesa contro la sopraffazione dei sempre più arroganti poteri forti e le intossicanti cortine mediatiche atte a disorientare il pensiero debole e di chi più si trova in acque difficili. I fondamentali; cari amici e compagni, i fondamentali di quel pensiero che armò di volontà, coraggio e determinazione coloro che oggi onoriamo: rispetto dell’essere umano, un’equa distribuzione delle risorse; onde garantire a tutti la dignità, e questi non sono valori vecchi, di settant’anni fa, sono i valori che ancora oggi definiscono una società civile, e questo ci chiama ad un impegno indifferibile se vogliamo evitare la già serpeggiante catastrofe bellica.

Le cronache le seguite e ne avete per non considerare queste mie parole: enfatiche.

Oggi, 17 settembre 2017: credo di non andare fuori tema se qui, per un attimo, voglio ricordare quella che fu la scintilla, il punto di partenza di una riscossa che dimostrò ai cittadini del mondo la reale possibilità di emanciparsi dalla sopraffazione dei ceti dominanti, dalla miseria, dalla soggezione culturale, e finalmente riconoscere nell’uguaglianza e nella giustizia gli unici elementi che possono garantire la libertà.

Dire che quella non fu impresa facile è superfluo, ma va sottolineato che quell’evento fu il primo esperimento messo in campo da quell’umanità che aspirava ad un altro mondo possibile, un mondo dove non esistesse lo sfruttamento dell’uomo sul’ uomo.

Questa scintilla; fu la così detta Rivoluzione di Ottobre di cui quest’anno ricorre il centenario; che poi fu la scintilla che animò anche la maggior parte dei nostri resistenti,

-cinquant’anni dopo la locuzione del Rovani e che, secondo me, ne conferma la veridicità e perciò dovrebbe spingerci a prenderla come incitazione: come parola d’ordine: “Se un popol vuole un popol può”

Un popol può; è vero che il popolo che inizialmente si mosse nella vicenda resistenziale era una minoranza, ma è pur vero che quel numero si distinse dal gregge soggiogato per intelligenza, passione, coraggio, senso di fratellanza umana e quindi di libertà: premio che alla fine fu per tutti.

I nomi qui iscritti a perenne memoria sono quelli di: Ambrosini Gino, Canciani Venero, Pelosin Albano, Pividori Otello, Tosolini Giuseppe e Zampa Alberto: caduti nei campi di concentramento nazisti.

I nomi di: Calligaris Angelo, Conte Annibale, Cudis Giuseppe e Pegoraro Guido: caduti sui teatri di guerra;

ed i nomi di Conedo Aniceto-Violino-, Mariutti Enrico -Ras-, Sant Gino -Belpasso- e Zuccolo Elio -Dinamite-: Partigiani, combattenti per la libertà.

Oggi, in questa circostanza, oltre a ricordare questi caduti un pensiero ed una riflessione la dobbiamo al più giovane di loro: Gino Sant, Belpasso, questo il suo nome di battaglia: 13 anni, classe 1931.

13 anni; non un ragazzo: un bambino.

Esuberante e senza paura; così veniva ricordato da quanti lo conobbero, un temperamento che male sopportava il morso, 3 volte scappò di casa per unirsi ai partigiani; la sua giovane vita, a causa delle ferite subite, si concluse il 23 settembre 1944. Un bambino si dice: ma nella generalità a quei tempi, a quella età, dalle nostre parti si era già buoni per una infinità di mestieri di pratica, manovali, fabbri, meccanici, panettieri, sarti, contadini e quanti ancora. Da considerare poi che il percorso di formazione scolastica all’ora passava per: figli della lupa 6-8 anni, giovane balilla 8-11 anni, moschettiere (che non ha a che fare con l’eroe di Dumas, ma con moschetto, arma: libro e moschetto fascista perfetto), dai 12-13 anni e poi, avanguardisti, il tutto puntando sulla mitizzazione e sulla esaltazione del senso di patria, di un onore fasullo e di deliri razzisti, della sopraffazione violenta di quanti si opponessero o si esprimessero contro il fascismo.

E’ una domanda che mi pongo da molto tempo: come facessero quei giovani, giovanissimi, dopo un simile imprinting a intraprendere strade diametralmente opposte da quelle imposte, appunto, dal potere dominante; che rinunciassero ai seppur modesti comodi dati dall’obbedienza all’indegno regime, per scegliere, di fatto, tutti i disagi, i sacrifici, i pericoli che la lotta e il rispetto di se comportano: perché non chiamarli eroi?

Personaggi che per ciò, andarono oltre il sacrificio degli eroi di deamicisiana memoria che ci hanno insegnato ad amare fin dalle scuole elementari; la piccola vedetta lombarda, il piccolo patriota padano e tante altre figure di ragazzi che abbiamo imparato a conoscere attraverso la letteratura. Perché non chiamarli eroi: forse per nascondere la pochezza quando non la codardia di molti: troppi adulti?

Oggi; ma come ieri, sono abbastanza grandi per darsi a efferate violenze di branco, ma sono troppo piccoli per aspirare a nobili, istintivi ideali di umanità: e dico istintivi, poiché l’uomo cerca l’uomo, chi lo fa feroce è una cattiva scuola, una esistenza ingiusta. Ed è qui che il nostro impegno deve essere totale; che dobbiamo fare il nostro mestiere di adulti, curare e difendere le giovani generazioni dai tentativi di banalizzazione, di disumanizzazione operati da forze che ne vogliono il controllo: la loro gestione. La nostra pagina non è la prima e non sarà l’ultima, è solo quella successiva a quella scritta dai nostri resistenti e che noi riconosciamo gloriosa: facciamo che la nostra sia altrettanto degna:o almeno proviamoci.