Desidero prima di tutto ringraziare ANPI Udine per il compito affidatomi, è per me un grandissimo onore e un’enorme responsabilità.
Care compagne, cari compagni, oggi siamo qui a ricordare un uomo che ha dedicato la sua vita alla lotta per la libertà e per i propri ideali – e infine in questa lotta la sua vita l’ha persa – Giovan Battista Periz, nome di battaglia “Orio”, è stato un instancabile oppositore del regime fascista; un antifascista, si può dire a ragione, della primissima ora, che ha continuato a combattere fino alla fine senza poter vedere il frutto dei propri sforzi.
La sua vicenda sembra uscita dalla penna di un romanziere: nato nel 1898, vivrà in prima persona – suo malgrado – alcuni passaggi della storia d’Italia in quella prima metà di secolo dove per chi come lui non vuol chinar la testa la vita si fa sempre più difficile. Diventa, da giovanissimo, soldato nella Grande Guerra e come ogni soldato vive nella vita di trincea, nell’autoritarismo dei superiori, nel classismo delle gerarchie, nella miseria di risorse contrapposta alla vuota retorica del gergo militare, un preludio agli orrori del ventennio successivo. Viene infine catturato dall’esercito austroungarico e detenuto nel campo di Mauthausen.
Nel primo dopoguerra milita prima tra le fila dei socialisti poi nel 1925 aderisce al Partito Comunista e l’anno successivo, con il partito costretto all’esilio e dunque a operare in clandestinità, contribuisce alla produzione e diffusione di fogli clandestini quali “Il Lavoratore Friulano”, “Spartaco” e “Il Combattente Antifascista”. Questo suo inesauribile attivismo gli procura le attenzioni dell’OVRA: arrestato nel 1931, condannato in qualità di “sovversivo, antifascista, comunista”, amnistiato in occasione del decennale del regime. Ma come molti “sovversivi, antifascisti, comunisti” come lui la scarcerazione non significa fine della persecuzione: sorveglianza costante, occasionali periodi di detenzione ingiustificata, atti d’intimidazione, sono solo alcune delle azioni che fanno parte della metodologia della polizia politica e delle milizie volontarie; l’obiettivo è quello di minare le capacità organizzative dei gruppi antifascisti attraverso la frammentazione del dissenso: il potere autoritario riesce ad esercitare un controllo tanto migliore quanto più la società è parcellizzata ed i dissidenti sono isolati, ridotti in solitudine.
All’indomani dell’8 settembre si unisce alla resistenza assumendo il nome di battaglia “Orio”, entra a far parte della brigata garibaldina “Picelli Tagliamento”, l’esperienza derivante da anni di azioni clandestine gli consente ora di assumere posizioni organizzative e di coordinamento. A Udine collabora con i GAP e recluta giovani antifascisti, qui viene arrestato il 14 gennaio 1945 e condotto nelle carceri di via Spalato, dove è sottoposto a pestaggi e torture, riporta gravi lesioni agli arti e alla schiena. Quando giunge l’ordine di far sparire i detenuti Orio viene caricato su un treno e, crudele coincidenza, dopo quasi vent’anni si ritrova nuovamente al campo di concentramento di Mauthausen; il suo stato di salute è già gravemente compromesso all’arrivo e viene aggravato dalle terribili condizioni di prigionia. Anche qui, al termine della sua vita, dedica le sue ultime energie ai compagni, arrivando a cedere loro le proprie razioni di cibo. E’ il caso di Silvano Castiglione, ricordato in via Leicht, cui diceva “mangia il pane, tu sei giovane”; deceduto, crudeltà della sorte è il caso di dire per la seconda volta, il giorno della liberazione del campo.
Una vita tragica, una persona che ha subito ciò che di peggio in quegli anni il nostro Paese aveva da dare, al contempo però riconosciamo nel suo agire una fulgida parabola positiva: si provi solo a immaginare cosa deve essere stato passare un ventennio assistendo ad un costante deterioramento dei diritti politici e sociali, subire soprusi ed umiliazioni, senza mai demordere, mai perdere la fiducia nei propri ideali e nella bontà della propria causa. Dove ha trovato la forza di resistere?
Una risposta l’ho trovata approfondendo la sua figura: anagraficamente ci separa un secolo esatto ed io non mi potrò mai arrogare il diritto di affermare di conoscerlo veramente; tuttavia, dalle testimonianze emergono chiaramente la sua tenacia, il suo temperamento. Giobatta Periz era un instancabile lavoratore, operaio metalmeccanico stimato da tutti i suoi colleghi e superiori, era una di quelle persone che di fronte alle ingiustizie non sono in grado di stare al proprio posto. Penso ad esempio alle parole riferite da Rosina Cantoni, nome di battaglia “Giulia”, che quando decise di seguire l’esempio dei fratelli e unirsi alla lotta di liberazione venne contattata da Orio. In quell’occasione lui le si rivolse dicendo semplicemente: “Sai, bisogna fare qualcosa”. Per lui agire era un dovere morale. Oppure penso anche a quei fogli clandestini di cui si occupava: mi sono imbattuto in un articolo de “Il Lavoratore Friulano” del novembre ‘43, una copia ciclostilata, in alto il titolo “Attesismo: un’insidia da sventare”, in fondo a matita la scritta “Orio”, il contenuto un’esortazione rivolta ai combattenti a non credere alle forze reazionarie che consigliano di aspettare l’intervento angloamericano, a non credere alla sovrastima della capacità bellica dei nazifascisti fatta da costoro e al contempo non pensare, come loro, che l’Italia possa “uscire dall’abisso con poco danaro e lievi sacrifici, se non stuzzica la ferocia e la brutalità dell’occupante”; in sintesi un’esortazione a non mollare, non delegare ad altri le battaglie per la libertà, i diritti, la giustizia, l’uguaglianza ma rimboccarsi le maniche e prenderseli da soli.
L’esempio di Orio e dei suoi compagni ricorda che in certi casi “bisogna fare qualcosa”, se il mondo non va come si vorrebbe “bisogna fare qualcosa”. Insegna anche a immaginare un mondo diverso. Con le parole di Rosina Cantoni, “Giulia”: “era necessario mettere tutte le forze nostre per finirla con la guerra, il fascismo, il nazismo e incominciare una cosa diversa”. Ma in un mondo dove la finanza internazionale decide e la politica si mette in coda, siamo ancora in grado di compiere un tale sforzo di immaginazione?
Non fu solo la tempra eccezionale a sostenere la strenua resistenza di Orio. Nonostante i tentativi del regime, la rete di solidarietà che univa gli antifascisti non venne mai tagliata, Giobatta non fu mai solo. Lo testimonia il fatto che durante le sue carcerazioni furono i compagni a provvedere al sostentamento della sua famiglia. L’ideale di fratellanza, sintomo di mollezza per i fascisti violenti e prevaricatori, si rivelò uno dei più grandi punti di forza del movimento.
Ma in un mondo neoliberista, dove vige il motto “la società non esiste, esistono solo gli individui” di thatcheriana memoria, come possiamo raccogliere il loro esempio?
Oggi ricordiamo la storia di Giovan Battista Periz e siamo chiamati a raccoglierne l’eredità. Orio e gli altri partigiani ci hanno lasciato in eredità la Costituzione, con il compito di preservare i suoi valori e di metterli in atto; la democrazia che diamo per scontata, ma che è un delicatissimo meccanismo fatto di diritti e doveri, pesi e contrappesi; l’antifascismo, fatto di ideali e di memoria, che ci dà gli strumenti per riconoscere i fascismi in tutte le loro forme; la pace.
Costituzione. Molte forze politiche hanno tentato di mettere mano alla carta costituzionale, con esiti diversi. L’attuale proposta prevederebbe una modifica della carta costituzionale per indebolire le camere e ridurre in modo sostanziale i poteri del presidente della repubblica in favore del capo dell’esecutivo. Non proprio una proposta formulata nel rispetto dei valori della costituente. Come se poi l’elezione diretta del premier fosse una garanzia di maggiore democrazia.
Democrazia, appunto. La nostra democrazia è ammalata, la sfiducia del popolo nei confronti del sistema rappresentativo parlamentare è in costante crescita, così come lo è chi diserta la cabina elettorale, il partito del non voto è oggi primo in Italia. Ma l’astensionismo – i dati parlano chiaro – va di pari passo con le diseguaglianze all’interno del mercato del lavoro. Mentre si divarica la forbice tra ultraricchi e classe media, a livello mediatico assistiamo all’esaltazione di evasori fiscali e figure dalla dubbia etica professionale e contemporaneamente al biasimo dei lavoratori più svantaggiati, in special modo giovani e immigrati.
Dicevo la democrazia è un delicato equilibrio tra poteri ed un quarto potere – i mezzi di comunicazione di massa – viziato da interessi economici e sottoposto a controllo da parte dell’esecutivo, è sintomo del malessere democratico. Sul web il dibattito pubblico si muove su portali in cui gli algoritmi sono costruiti secondo logiche di profitto, questi sono stati di recente il terreno fertile per la proliferazione di nuove destre estreme, la cosiddetta alt-right, che hanno proficuamente sfruttato la produzione massiva di fake news e di assurde teorie del complotto.
Nel servizio pubblico assistiamo all’occupazione compulsiva dei ruoli dirigenziali da parte delle forze di governo e a continue ingerenze nella libertà di stampa, faccio riferimento ad innumerevoli casi verificatisi negli ultimi mesi, ultimo dei quali il caso Scurati, in merito al quale il comitato di redazione del TG 2 ha denunciato “il controllo dei vertici RAI sull’informazione del servizio pubblico si fa ogni giorno più asfissiante”, “dirigenti nominati dal governo intervengono bloccando anche ospiti non graditi”, “siamo di fronte ad un sistema pervasivo di controllo che viola i principi del lavoro giornalistico”. Per non parlare delle notizie dalla guerra, che ci arrivano filtrate da maglie strettissime. In dittatura la censura è una cosa drammatica, in democrazia è una cosa ridicola, stiamo attenti che la farsa non ritorni ad essere tragedia.
Pace. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana il pacifismo viene da taluni considerato un disvalore. Dove prima, con le parole di Eco, “per il fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto vita per la lotta. Il pacifismo è collusione con il nemico, il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente”, poi la Repubblica si è data come valore fondante il principio “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ora a dirsi pacifisti si viene accusati di essere antioccidentali, promotori del fondamentalismo islamico o del regime putiniano, se non addirittura antisemiti. Se si è fortunati. Perché se e si decide di esercitare il proprio diritto costituzionale a manifestare, scendendo in piazza o organizzandosi nelle università si rischia ben di peggio.
Antifascismo. Questo è un valore fondante, che sottende altri valori; tra questi il rifiuto di certe pratiche politiche. Uso volutamente un termine generico perché oggi sembrerebbe esserci un’ambiguità sulla parola fascismo, dal momento che quando la si usa alcuni intendono, in mala fede a mio avviso, solo ed esclusivamente il fascismo storico, con le camicie nere e ogni suo ridicolo orpello. A costoro raccomando la lettura del “Fascismo Eterno” di Umberto Eco. In ogni caso, come li si voglia chiamare – neofascismi, postfascismi, autoritarismi – non cambia il fatto che ricordare i valori e le storie dei partigiani, di quello che è stato il ventennio fascista, fornisce gli strumenti per riconoscerli e combatterli.
L’antifascismo è un valore fondante, dicevo, ben sapendo che purtroppo non è mai stato abbracciato dall’intero popolo italiano; tuttavia ci sono state fasi nelle quali è stato condiviso dalla quasi totalità dell’emiciclo parlamentare, oggi invece abbiamo un premier che come la maggior parte delle forze di governo, non sembra essere in grado di pronunciare la parola “antifascismo”; in TV imperversano commentatori che rivendicano il diritto a non dichiararsi antifascisti, qualunque cosa questo voglia dire.
Che dire di fronte a tutto ciò?
L’unica cosa che ora mi viene da pensare è, citando Orio: “Sapete, bisogna fare qualcosa!”
Viva la resistenza! Viva l’Italia Antifascista!