Orazione di Gabriele Donato alla cerimonia del 19 dicembre 2021 a Cividale del Friuli


Orazione in ricordo dei “martiri della libertà”

Ringrazio innanzitutto l’Anpi di Cividale, nella persona del Presidente Luciano Marcolini, e l’Amministrazione comunale per avermi dato l’opportunità di tenere l’orazione ufficiale oggi qui davanti a voi; non posso non ricordare che tredici anni fa presi la parola in questo stesso luogo grazie alla proposta che mi fece Elio Nadalutti, dirigente Anpi di cui tutti sentiamo la mancanza: uomo di grande solidità, capace con il suo rigore di essere un vero punto di riferimento, era molto esigente con gli oratori che ascoltava, e le sue aspettative hanno sempre rappresentato, per il sottoscritto, uno stimolo d’importanza non trascurabile.

Sono trascorsi 78 anni dall’inizio della feroce repressione scatenata dai nazifascisti a Cividale ai danni di partigiani, civili e militari colpevoli di essersi allora opposti all’occupazione militare tedesca, attivamente sostenuta da quel che era rimasto – dopo l’estate del 1943 – del regime mussoliniano.

Nei pressi di questa caserma vennero detenuti, torturati e fucilati decine e decine di oppositori fra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘45: la caserma, infatti, era diventata allora la sede del Comando distrettuale tedesco, dopo che lo sfacelo della monarchia aveva aperto le porte del Paese all’invasione nazista.

Com’è noto, a inizio settembre l’Italia aveva firmato la propria resa incondizionata agli Alleati, mettendo la parola fine al patto sciagurato con Hitler: l’armistizio, tuttavia, invece di rendere possibile il riscatto del Paese dopo la vergogna della dittatura fascista, aveva gettato il paese nel caos.

Per quale ragione?

Perché la parte del Paese che si era stretta attorno a Vittorio Emanuele III, la parte più conservatrice del paese, il ceto dominante raggruppato attorno a Badoglio, nutriva un timore che metteva in secondo piano la preoccupazione per la più che probabile invasione tedesca. Di che cosa avevano paura generali, alti burocrati, industriali, banchieri ed aristocratici? Di tutti quegli operai, quei contadini, quegli artigiani, quei giovani che fra luglio agosto avevano riempito le piazze ovunque: la caduta del fascismo aveva suscitato l’entusiasmo della parte popolare del Paese, di quell’Italia proletaria che il regime aveva costretto al silenzio, alla passività, alla subalternità grazie alla violenza squadrista, ai Tribunali speciali, al confino, alla prigionia.

Quell’entusiasmo, tuttavia, dall’altra parte del Paese – quella delle élite – era temuto: in altri termini, l’Italia era spaccata: la patria era divisa, non per la prima volta e nemmeno per l’ultima.  Il governo badogliano, incapace di offrire una prospettiva all’Italia proletaria che pure si stava battendo per essere finalmente protagonista, si dimostrò completamente incapace di far fronte al pericolo incombente rappresentato dalla Wermacht schierata ai confini settentrionali dell’Italia.

Dopo l’8 settembre chi si organizzò per tenere testa ai Tedeschi che si stavano impossessando di tanta parte del territorio nazionale? Quanti si diedero precipitosamente alla fuga verso Brindisi o tante altre destinazioni, per salvare innanzitutto le proprie fortune? O quanti tentarono, con audacia e determinazione, di opporre all’avanzata dell’esercito nazista una vera e propria resistenza armata? Mi riferisco, naturalmente, ai primi distaccamenti partigiani che presero forma nelle montagne qua attorno, ma anche – per fare l’esempio forse più noto – alla Brigata proletaria che venne organizzata dagli operai dei cantieri di Monfalcone e che tentò di fermare l’avanzata dei tedeschi su Gorizia.

Quali erano i patrioti allora?  Chi dimostrò di avere a cuore le sorti del Paese? Chi scappava o chi combatteva?

Fu proprio allora che una giovane generazione di antifascisti, cresciuti durante il Ventennio e nauseati dalla retorica nazionalista martellante che il regime aveva imposto come dogma di Stato, scoprì il valore dell’impegno per la patria; ecco le parole utilizzate da Natalia Ginzburg per descrivere lo stupore e la commozione di quella scoperta:

Le strade e le piazze diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le parole “patria” e “Italia” che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché sempre accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava (…) Ci parve strano il fatto che, per amore di tutti quegli sconosciuti che passavano, e per amore di un futuro ignoto ma di cui scorgevamo in distanza, fra privazioni e devastazioni, la solidità e lo splendore, ognuno era pronto a perdere se stesso e la propria vita.

Nei pressi di questa caserma a perdere la propria vita furono in tantissimi: più di cento le vittime accertate, nella maggior parte dei casi vittime che non è stato possibile identificare. Un vero e proprio eccidio, perpetrato nel corso di mesi e mesi di esecuzioni sommarie decise per piegare la Resistenza e per terrorizzare la popolazione locale. Non è stato possibile quantificare il numero effettivo delle vittime: quel che è certo è che i loro corpi venivano poi buttati nelle fosse scavate dalle vittime stesse nei prati degradanti verso l’alveo del Natisone. 

Grazie alla testimonianza di un cividalese, sappiamo che una ragazza, una staffetta partigiana, poco prima di stramazzare al suolo gridò “Viva l’Italia!”. Commemorare la sua morte come quella di tutte le altre vittime della ferocia nazifascista ha, per noi oggi, una valenza particolare; a questo proposito dobbiamo essere chiari: questo è il patriottismo che a noi, eredi orgogliosi del patrimonio di valori della Resistenza, sta cuore. Non altri.

Queste ragazze e questi ragazzi hanno rinnovato completamente il significato da attribuire al termine “patriota”, e a questo straordinario rinnovamento non intendiamo rinunciare nemmeno oggi, quando proprio attorno a questo termine si è aperta una contesa: una contesa che non deve sorprendere perché è da allora che ci si divide sull’accezione da attribuire a quel termine. La Resistenza lo rivendicò, non lo lasciò a disposizione dei fascisti. Perché mai, d’altro canto, abbandonarlo nelle mani di chi, allora, non seppe far altro che mettersi agli ordini degli occupanti nazisti? 

Consentitemi di citare le parole di un collaborazionista cividalese, riferite da Giuseppe Jacolutti nella sua ricerca dedicata alle “Fosse del Natisone”; sollecitato a riferire del ruolo avuto nel corso di quei mesi dalle autorità civili locali – i fascisti collocati al fianco del Comando tedesco – spiegò: “Le autorità civili locali erano completamente ignorate dal Comando tedesco (…) Scarsa la considerazione dei Tedeschi nei loro confronti”. Ribadisco pertanto: quali erano i patrioti allora? Quelli che combattevano contro i Tedeschi o quelli che con i Tedeschi collaboravano, accettando in silenzio un rapporto umiliante di sudditanza?

A disposizione dei nazisti, al loro servizio, capaci di ritagliarsi uno spazietto solo nella veste di delatori e fucilatori di partigiani: questo fu vero altrove come a Cividale, tanto che la decisione di fucilare proprio a Cividale otto dei partigiani condannati a morte dal Tribunale militare tedesco venne presa proprio dai fascisti. Ecco ancora le parole del collaborazionista già citato, relative alla fucilazione del 18 dicembre 1944 al campo sportivo: “I fascisti italiani comandavano la fucilazione in loco, tant’è che il plotone d’esecuzione fu composto fa fascisti repubblicani”.

Così sono andate le cose, a Cividale come da tante altre parti: questa è la ragione per cui dagli esponenti politici che provengono dal partito che ha ereditato la tradizione del fascismo non è possibile accettare lezioni di patriottismo.

Sapete molto bene, d’altro canto, che le fucilazioni avvenute al campo sportivo vennero accompagnate da una decisione particolarmente feroce: quella di imporre l’esposizione prolungata (durò venti giorni) dei cadaveri degli otto partigiani condannati a morte. Quei corpi crivellati dai colpi dovevano essere esibiti pubblicamente affinché si generasse il terrore provocato dall’esempio. Per quale ragioni i fascisti vollero questo scempio? Per provare a domare una ribellione che nei mesi precedenti era dilagata, evidenziando una volontà di resistere che, nonostante i rastrellamenti e la repressione, non scompariva.

Una volontà di resistere che aveva creato le condizioni per il moltiplicarsi delle formazioni partigiane dal Collio alle Valli del Natisone e a quelle del Torre; formazioni che, forti della collaborazione costruita pazientemente con la Resistenza slovena, manifestarono un irriducibile spirito combattivo, sintetizzato dalle parole battagliere di un gappista dell’epoca: “Non ci faremo intimidire dalle rappresaglie, è l’unico modo di mantenere in efficacia le nostre forze e di far capire al nemico l’inutilità della sua ferocia”.

Il tentativo messo in atto dai nazifascisti di sterminare gli oppositori fu tanto brutale quanto inutile: nel corso dell’inverno del 1944-‘45 la lotta partigiana fu messa a dura prova, fu costretta a perdere posizioni, ma non fu sconfitta. Il sostegno logistico messo a disposizione dall’Esercito di Liberazione jugoslavo consentì di superare quei mesi terribili, resi ancora più complicati dalla collaborazione attiva garantita agli occupatori nazisti dai soldati cosacchi, più di 10 mila, giunti nelle montagne di questo territorio a seguito dei tedeschi nell’estate del ‘44. Tutto ciò non impedì alla resistenza di mantenersi in piedi e, nella primavera, di passare all’offensiva, offensiva grazie alla quale Cividale, come il resto dell’Italia settentrionale, poté essere liberata prima che vi entrassero le truppe britanniche e americane.

I protagonisti furono centinaia di partigiani, italiani e sloveni, che, variamente organizzati, si erano battuti orgogliosamente perché la liberazione delle proprie terre non fosse una gentile concessione delle truppe alleate, ma scaturisse invece da un impegno di popolo, dalla mobilitazione di quanti avevano rifiutato di attendere, di nascondersi, di aspettare tempi migliori. Partigiani e partigiane che in larga parte erano di composizione sociale proletaria: operai come il primo ucciso presso questa caserma, Antonio Rieppi, o contadini come Guerrino Bini, fucilato solo pochi giorni prima della liberazione, al quale l’Anpi di Cividale dedicò, nell’estate del ’45, queste parole: “Fu tra le schiere dei patrioti che in venti mesi di disagi e di sacrifici inauditi, riconquistarono alla Patria il posto che le spetta tra le grandi nazioni, dopo più che vent’anni di sgoverno fascista”.

Rileggendo queste parole mi sono tornate alla mente le indicazioni – scusate il ricordo molto personale – che mio padre mi scrisse nel dicembre del 2008, a mo’ di consigli per l’orazione che avrei dovuto pronunciare proprio in questo luogo; al quinto punto del suo elenco di suggerimenti c’era scritto: “spiegare bene e semplicemente perché la lotta partigiana ha dato all’Italia libertà e democrazia, perché per molti è solo un enunciato di difficile interpretazione, o addirittura non vero”. Aveva ragione mio padre, più di quanto allora immaginassi: sono infatti molti, troppi, coloro che si ostinano a chiudere gli occhi di fronte al significato assunto da quei venti mesi di lotta animati da centinaia di migliaia di antifascisti.

Con quale credibilità il nostro Paese avrebbe potuto partecipare ai grandi dibattiti del dopoguerra se, invece di conquistarsi la libertà, si fosse limitato a farsela concedere dagli Alleati? Pensiamo per davvero che la nostra Costituzione sarebbe stata la stessa, se fosse stata scritta sotto la dettatura dei generali degli eserciti liberatori? La democrazia che gli antifascisti hanno saputo conquistarsi e di cui hanno scritto le regole, coerentemente con i loro principi e con i loro valori di comunisti, di socialisti, di democratici e di liberali, ha preso forma grazie a loro, grazie alla loro decisione di agire, di essere protagonisti.

Che altro è la democrazia se non questo? E mi riferisco al significato etimologico del termine greco in questione che, come tante volte ha spiegato il grecista Luciano Canfora, è un “termine di battaglia”. In che senso? Nel senso che nelle antiche polis la democrazia era quell’assetto di potere che consentiva al popolo, alla massa dei meno abbienti, di esercitare la propria sovranità dopo averla sottratta all’élite aristocratica. Il demos, nell’Atene di Pericle, esercitava il proprio potere proprio perché, grazie alla battaglia politica, lo aveva strappato dalle mani dell’aristocrazia: nessuno glielo aveva concesso, ma si trattava di un potere conquistato e agito con determinazione.

I costituenti italiani che hanno elaborato le nostre leggi fondamentali fra il 1946 e il 1947 conoscevano molto bene, come chiarì Calamandrei nel celeberrimo discorso del 1955, “le montagne dove caddero i partigiani, le carceri dove furono imprigionati, i campi dove furono impiccati” e proprio in quei luoghi, o meglio, in questi luoghi, va cercata l’ispirazione della nostra Costituzione. Se invece fosse stata scritta altrove, a un tavolo di confronto in cui a trattare ci fossero stati generali e burocrati badogliani con i diplomatici delle potenze alleate, pensiamo davvero che avrebbe la stessa configurazione, così “rinnovatrice e progressiva”? Pensiamo davvero, per fare un unico esempio, che uguaglianza e giustizia sociale vi avrebbero avuto lo stesso ruolo?

È del tutto evidente che non sarebbe stato così. Le cose sono andate nel modo che Calamandrei ha descritto con insuperabile vivacità perché fra il 1943 e il 1945 ci fu una parte del Paese che rifiutò l’acquiescenza, si scrollò di dosso la passività, prese il coraggio a quattro mani e agì. Uso le parole di allora di un partigiano: “o facciamo noi o non ci illudiamo che altri faccian per noi”. È possibile immaginare parole più patriottiche di queste?

Guardate che il paradosso è che ci sono parti significative dell’attuale schieramento politico che continuano a sostenere che l’8 settembre 1943 sarebbe stata la data della morte della patria. In un certo senso, dobbiamo riconoscerlo, hanno ragione: quando hanno iniziato a battersi i partigiani, la patria imperialista celebrata per anni dalla retorica nazionalista del fascismo ha iniziato a vacillare, mentre ha iniziato a prendere forma una patria completamente nuova, quella rivendicata dagli oppressi intenzionati a liberarsi, a scuotersi di dosso le tracce lasciate da anni di dittatura. Oppressi che credevano in principi diversi, che nutrivano aspettative diverse nei confronti dell’avvenire, che in tanti casi parlavano anche lingue diverse, ma che comunicavano e che collaboravano grazie al linguaggio universale della lotta per la liberazione e per la giustizia: il linguaggio che unì tanti popoli europei che il nazionalismo – lasciato in dote dalla Prima Guerra mondiale – aveva diviso.

A quasi ottant’anni dall’inizio della resistenza, noi antifascisti possiamo, dobbiamo continuare a essere orgogliosi di questa storia! Gli altri, coloro che non si riconoscono in questa storia, hanno le stesse ragioni per essere orgogliosi? Non credo.

Allora il Paese si divise e ha continuato a rimanere diviso: nelle battaglie e nelle aspirazioni dell’antifascismo hanno continuato a non riconoscersi in tanti, e oggi costoro alzano la voce nei comizi, non solo contro i valori dell’antifascismo, ma contro bersagli più precisamente definiti, la Costituzione innanzitutto, e della Costituzione nel mirino è finito – uso le parole precise – “il pantano della Repubblica parlamentare”.

Questa è la posta in gioco oggi, di questo si sta parlando, ed è bene esserne consapevoli, come ha chiarito con efficacia il Presidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo: “ tutto si combina: assemblea costituente, antiparlamentarismo, presidenzialismo, apologia dell’uomo solo al comando, nazionalismo, sono i punti cardinali di una proposta politica inaccettabile e pericolosa che va denunziata senza se e senza ma, prima che titubanze o inopportuni eccessi di prudenza ci portino in un vicolo cieco. A buon intenditor, poche parole”.

Non ci deve sorprendere, pertanto, che il patriottismo venga rimesso dai nazionalisti al centro di una strategia retorica che si fonda su un’operazione parallela altrettanto arbitraria: il tentativo di rimozione dell’antifascismo dall’orizzonte dei valori dell’attualità, quasi che con quel termine si potesse identificare esclusivamente l’impegno di un’epoca lontana contro una dittatura ormai dimenticata.

Quest’equivoco è inaccettabile: l’antifascismo prese forma allora come alleanza di forze anche molto diverse che avevano deciso di convergere per un obiettivo comune, ma poi si è materializzato in una Costituzione che, come ha detto Calamandrei, non è stata concepita per essere esclusivamente la cornice giuridica di un assetto istituzionale: essa era e ha continuato a essere anche “un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. Ecco, questo è un “impegno di lavoro” dal quale noi ci sentiamo ancora vincolati e rispetto al quale non siamo disposti a transigere.

Quante e quanti considerano la Costituzione un anacronistico residuo del passato da stravolgere, lo tengano ben presente.

Cividale del Friuli, 19 dicembre 2021