Orazione di Flavio Fabbroni alla cerimonia di domenica 5 settembre a Povoletto


Dopo l’interruzione dell’anno scorso, per i motivi che tutti sappiamo, torniamo quest’anno a celebrare un episodio importante della Resistenza in questo paese, che viene ricordato come “Battaglia di Povoletto”. Ma in particolare siamo qui a celebrare l’importanza della memoria, perché senza memoria, tanti lo hanno detto e ripetuto, non ci può essere futuro.

Cominciamo esaminando brevemente il contesto in cui la Battaglia si collocò:

siamo nell’estate del 1944, la grande estate partigiana, il momento in cui la Resistenza nell’Italia del nord ha raggiunto la massima efficacia nella lotta contro repubblichini e nazisti. Tra giugno e luglio gli organi dirigenti dei partigiani del nord, il CLNAI e il CVL, inviarono ai vari comandi partigiani delle circolari che invitavano a liberare dalla presenza nemica, dove fosse possibile, delle zone, dove instaurare la democrazia: libere elezioni, esperienze di governo, riforme. Sostanzialmente una prova di democrazia

Queste direttive erano motivate dalla convinzione che i nazifascisti avessero in Italia i giorni contati: Roma era stata liberata, poi Firenze, e la campagna alleata stava proseguendo.

Ma l’illusione era destinata a crollare: lo sbarco in Normandia aveva declassato il fronte italiano, il futuro dell’Europa lo si decideva in Francia, e in Francia i comandi alleati avevano spostato varie divisioni dal fronte italiano. Il colpo di grazia fu il “Proclama Alexander”, diffuso per radio il 13 novembre, con il quale il comandante in capo degli alleati in Italia, sostanzialmente invitava i partigiani italiani a sospendere ogni attività in attesa della ripresa primaverile. Ciò significava che sulla Linea Gotica non si combatteva più, ci si limitava a mantenere le posizioni conquistate. Naturalmente ciò dava mano libera ai nazifascisti che ebbero la possibilità di spostare intere divisioni contro i partigiani del nord, per distruggerli una volta per tutte. Dalla Grande Estate partigiana, si passò alla più grave crisi che la Resistenza italiana abbia mai conosciuto: l’inverno 1944 – 1945.

Ma torniamo nei nostri luoghi.

Il 31 agosto 1944, con la conquista di Nimis, i partigiani osovani e garibaldini, con comando unificato, formarono la Zona libera del Friuli orientale, che comprendeva Torreano, Attimis, Lusevera, Taipana, Nimis, Faedis. Il controllo del territorio prevedeva anche il controllo dei confini, l’eliminazione cioè di fortini, caserme, presidi che ostacolassero le operazioni militari in pianura: i rifornimenti e i sabotaggi.

Era il caso del presidio della 63.a legione della Guardia nazionale repubblicana “Tagliamento”, situato a Povoletto e composto da 220 carabinieri, 30 camicie nere, qualche finanziere, ai quali si erano aggregati 3 marescialli tedeschi; quindi in totale circa 260 uomini.

La battaglia avvenne il 5 settembre 1944 e si concluse con la conquista del Municipio, l’ultimo baluardo rimasto ai nazifascisti.

L’abilità con cui fu condotta l’operazione è evidenziata dai risultati che ottenne: di fronte a tre caduti e una ventina di feriti di parte partigiana, ci furono 28 fascisti uccisi e 193 prigionieri, tra cui i tre tedeschi; e un ricco bottino in armi e materiali. 170 dei carabinieri catturati aderirono poi al movimento partigiano, entrando nelle formazioni osovane o garibaldine.

Ma poi, alla fine di settembre, il grande rastrellamento. I circa 3.000 partigiani che presidiavano la Zona libera, si trovarono di fronte un esercito di 29.000 nazifascisti, bene armati ed equipaggiati, muniti di artiglieria pesante, con l’appoggio della Luftwaffe.

E poi la vendetta: deportati, fucilati, paesi distrutti e incendiati. Un costo enorme pagato dalla popolazione civile. Sofferenze e anche rancore nei riguardi dei partigiani, ai quali veniva attribuita la responsabilità della violenza nazifascista. “Tanto, diceva qualcuno, gli alleati ci avrebbero lo stesso liberati”. Veniva valorizzata in questa maniera la scelta di quanti, in nascondigli sicuri, attendevano la fine della guerra.

È giusto rispettare la sofferenza delle vittime, ma è giusto anche valorizzare la scelta della resistenza armata, che comportava non certo privilegi e guadagni, ma sacrifici in nome di valori ineludibili.

Per mettere in evidenza l’importanza della Resistenza per il nostro Paese, faccio un riferimento al trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, nel cui preambolo si legge: “Premesso che l’Italia sotto il regime fascista ha partecipato al Patto tripartito con la Germania ed il Giappone, ha intrapreso una guerra di aggressione ed ha in tal modo provocato uno stato di guerra con tutte le Potenze Alleate ed Associate e con altre fra le Nazioni Unite e che ad essa spetta la sua parte di responsabilità della guerra …

Quindi il preambolo prosegue:

“Premesso che dopo l’armistizio Forze Armate italiane, sia quelle governative che quelle appartenenti al Movimento della Resistenza, presero parte attiva alla guerra contro la Germania, e l’Italia così divenne cobelligerante nella guerra contro la Germania stessa … ecc. ecc.

Quali le conseguenze di tale preambolo? Andiamo a vedere la sorte dei paesi del “Tripartito” nel dopoguerra: la Germania fu divisa in 4 zone d’occupazione e tornerà unificata solo nel 1990.

Il Giappone sarà occupato dalle truppe americane fino al 1951, e governato dal generale Douglas Mc Arthur. Nel ‘46 fu approvata una nuova costituzione dettata da Mc. Arthur stesso.

E l’Italia “cobelligerante”? L’Italia poté scegliere democraticamente la forma istituzionale, la Repubblica, nonostante l’ostilità dell’Inghilterra, e votare democraticamente l’Assemblea costituente che elaborò la nostra Costituzione.

Chi erano i “cobelligeranti”? Innanzitutto gli antifascisti che durante il Ventennio subirono torture, carcere e confino. Poi i volontari del Corpo Italiano di Liberazione, che risalirono la Penisola combattendo a fianco degli Alleati, quindi i partigiani di ogni formazione, e i 600.000 IMI (Internati Militari Italiani) che nei Lager, affamati, ammalati, difesero la loro dignità dicendo NO a ogni forma di collaborazione con i nazifascisti. E anche le vittime civili, con il loro alto prezzo pagato: tutti costoro hanno salvato l’onore e la dignità del nostro Paese.

Date queste premesse, incontrovertibili, ci poniamo una domanda: come mai in questo nostro Paese non è stato possibile creare su tali temi una memoria condivisa?

La risposta la conosciamo: l’Italia non ha fatto, e continua a non fare i conti con la propria storia.

Innanzitutto, la mancata epurazione dei criminali di guerra, in cui simbolo più eclatante fu il cosiddetto “Armadio della Vergogna”, custodito nella sede della procura generale militare, con le ante rivolte verso un muro. Custodiva 695 fascicoli processuali, riguardanti crimini fascisti e nazisti, e fu casualmente scoperto nel 1994. Gli alleati nel dopoguerra avevano stilato un elenco di criminali italiani, con 1070 nomi. Ne chiesero l’estradizione paesi come la Grecia, la Jugoslavia, l’Etiopia: non ne fu concessa neanche una.

Mi viene poi in mente l’elezione, nel 1957, a presidente della Corte costituzionale del magistrato Gaetano Azzariti, nonostante fosse stato uno dei firmatari del “Manifesto della razza”, e quindi nominato dal Duce presidente del “Tribunale della razza”, l’organo che valutava i ricorsi e decideva chi fosse ariano e chi fosse ebreo.

E parlo della Corte costituzionale, l’ente destinato a difendere la nostra Costituzione repubblicana.

Cito infine un mio ricordo personale; mi riferisco al film americano “Il leone del deserto”, che trattava la storia della resistenza libica, durante la cosiddetta “riconquista”, tra il 1929 e il 1931, condotta dall’esercito fascista comandato da Rodolfo Graziani. Io allora ho avuto la possibilità di vederlo, ma registrato in lingua francese, perché la circolazione in Italia fu vietata dal sottosegretario al Ministero degli esteri Raffaele Costa, liberale, con questa motivazione: il film era “lesivo dell’onore delle Forze armate italiane”.

Ma non si rendeva conto, il liberale Costa, che così parificava l’esercito fascista e quello della Repubblica democratica italiana?

E non è che oggi le cose vadano meglio: frequenti sono i tentativi di amministrazioni locali di titolare vie o zone verdi a esponenti del regime fascista. E nelle scuole ben raramente si studia la storia del fascismo e della seconda guerra mondiale, mentre nei “social” il neofascismo trionfa, mentre per la senatrice Liliana Segre, reduce da Auschwitz, è stata necessaria una scorta armata, per difenderla dalle frequenti minacce.

Per questo l’ANPI e le altre associazioni partigiane continuano a difendere la memoria e le radici della nostra Repubblica, che si basa sull’antifascismo. E per questo ringrazio il signor Sindaco, che ci accoglie e ci ha accolto ogni anno.

Povoletto, 5 settembre 2021

Flavio Fabbroni, storico e dirigente ANPI