80° anniversario dell’eccidio di 29 partigiani alle Carceri di Via Spalato
Udine 13 aprile 2025
Saluto il Sindaco di Udine, tutti i Sindaci presenti, i rappresentanti e le rappresentanti delle istituzioni, i familiari dei partigiani uccisi, gli uomini e le donne dell’ANPI e dell’APO, le cittadine e i cittadini.
È per me un onore e un’emozione prendere la parola sotto a questa lapide che ricorda uno degli episodi più dolorosi e drammatici della lotta di Liberazione in Friuli e ringrazio l’ANPI per l’invito che mi è stato rivolto.
Il 14 marzo 1945, in una città sottoposta alle forze di occupazione nazista, il Tribunale tedesco di Udine condannò a morte 37 partigiani rinchiusi nelle Carceri di Via Spalato. La notizia suscitò una grande apprensione tra la popolazione, ma inutili furono i tentativi, esercitati da più parti, di liberare i prigionieri, facendo pressioni sul comando tedesco per annullare le condanne a morte. Il mattino del 9 aprile, pochi giorni prima che Udine fosse liberata, 29 di quei partigiani furono fucilati nei cortili interni dell’istituto penitenziario in cui, accanto alle SS, operavano molti italiani fedeli alla Repubblica Sociale. I 29 uomini giustiziati a Udine erano combattenti delle Brigate Garibaldi e delle formazioni partigiane dell’Osoppo. Tra di loro c’erano ragazzi giovanissimi, di 18 e 19 anni, e comandanti prestigiosi, come Mario Foschiani che aveva partecipato alla guerra di Spagna e Mario Modotti, il popolare comandante “Tribuno”, che dal Comando Unificato Garibaldi Osoppo Friuli si era distinto per le azioni di resistenza in Val Cellina.
Erano uomini audaci ed esperti e avevano 33 anni.
Fino all’ultimo rivendicarono i propri ideali, la profonda adesione all’antifascismo che li aveva spinti a rifiutare la sottomissione a un regime dittatoriale che per vent’anni aveva privato il nostro Paese di ogni libertà democratica, aveva emanato le leggi razziali, spinto l’Italia in brutali guerre d’aggressione condotte autonomamente o accanto all’alleato nazista.
Alla vigilia dell’80° anniversario del 25 aprile, allora, mentre i testimoni della straordinaria stagione della Resistenza sono in larga parte scomparsi, diventa nostro compito assumere la responsabilità di far vivere oggi, nelle condizioni storiche in cui siamo inseriti, l’insegnamento di quante e quanti, anche con il sacrificio della propria vita, hanno reso possibile la sconfitta del nazifascismo e preparato le condizioni perché potesse essere scritta la nostra Costituzione, fondamento della Repubblica e della nostra convivenza democratica.
La Resistenza al nazifascismo fu un fenomeno europeo di vastissima portata: dalla Francia all’Olanda all’Italia, dalla Polonia alla Jugoslavia alla Grecia alla Russia fin dentro alla stessa Germania, migliaia di donne e uomini scelsero di ribellarsi allo stato di feroce oppressione a cui erano sottoposti, lottando per un futuro di libertà, per una società diversa fondata sulla giustizia e la pace. Erano consapevoli che l’Europa, lacerata da nazionalismi contrapposti e da politiche di dominio, nel corso di un solo trentennio aveva originato due guerre mondiali che avevano dissanguato e devastato l’intero continente e molte parti del pianeta. Quando le armi tacquero, la loro forte richiesta “mai più guerra” trovò riscontro nella Carta fondativa delle Nazioni Unite, nei principi ispiratori della Costituzione italiana, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documenti che inauguravano una nuova visione del mondo, affermavano solennemente il rifiuto della guerra, impegnavano gli Stati a mantenere la pace e la sicurezza comune, a prevenire i conflitti armati, a ritenere illegittime le politiche di aggressione, a sanzionare i crimini di guerra e contro l’umanità, indicando nelle istituzioni internazionali la più alta fonte di diritto a cui i singoli Paesi del mondo dovevano conformarsi.
Sappiamo che nel corso degli anni la Carta dell’ONU è stata tante volte violata, che le guerre, spesso volute dall’Occidente, si sono ripresentate. Oggi, però, in un orizzonte di scontro tra imperi e di violente contese regionali, l’esercizio della forza, le aggressioni armate, le rappresaglie sui civili sono nuovamente considerati normali strumenti per la risoluzione dei conflitti, nel disfacimento di ogni legalità internazionale. Ne danno testimonianza i tre anni di guerra che abbiamo alle spalle, iniziati con l’invasione russa dell’Ucraina, con quasi un milione di morti tra l’una e l’altra parte, a cui si è aggiunto l’orrore per l’intervento dell’esercito israeliano in Palestina, seguito al violento eccidio di Hamas. La Striscia di Gaza è stata rasa al suolo, 50.000 persone sono state uccise, e tra queste 18.000 bambini e bambine; la popolazione civile è stata affamata, privata di supporti sanitari, sottoposta a bombardamenti indiscriminati e minacciata di deportazione. Nel silenzio e nella complicità degli Stati, i pronunciamenti della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che dal gennaio 2024 ha individuato “possibili atti genocidari” nelle azioni compiute da Israele sono stati contestati; gli interventi del Segretario Generale delle Nazioni Unite rifiutati; le richieste di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità emesse dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del primo ministro israeliano e di alcuni esponenti di Hamas apertamente disattese.
Con angoscia constatiamo come in larga parte delle istituzioni, dell’informazione, dell’opinione pubblica si siano affermati processi di disumanizzazione delle persone. Alcune vite, infatti, quelle di chi appartiene a società ricche e influenti, sono ritenute depositarie di diritti, meritevoli di cure e tutele, degne di lutto quando vengono a mancare. Altre vite non godono di questa considerazione: possono essere umiliate, annientate, condannate all’invisibilità, allo scarto.
In questo quadro, grandi sono le responsabilità dell’Europa. Nei confronti delle guerre in corso non è stata in grado di esprimere volontà e capacità diplomatiche. Non ha saputo proporre autonomamente tavoli di trattativa, iniziative per il cessate il fuoco, per la ricerca di possibili compromessi fra le parti, rinunciando così ai propri principi fondativi. Fin dal Manifesto di Ventotene, infatti, l’Unione Europea è stata pensata per promuovere la pace nel continente e nel mondo, per farsi interprete di politiche di dialogo, distensione e coesistenza, per garantire ai propri abitanti un sistema di diritti e tutele sociali che risulta ancora unico nel panorama internazionale. Il vuoto di politica ha invece facilitato, nel dibattito pubblico, la piena legittimazione della guerra che non è più ripudiata, non costituisce più scandalo e riprovazione, ma viene considerata uno strumento accettabile, a cui le opinioni pubbliche devono abituarsi. Stiamo insomma assistendo ad una resa intellettuale al bellicismo, come se la guerra fosse un destino ineludibile, uno sbocco obbligato. Anche nelle dichiarazioni dei più alti rappresentanti delle istituzioni europee, donne e uomini, oggi si diffonde la paura, si consolida la sindrome del nemico esterno, si prefigura il pericolo di invasioni future, di fronte alle quali, in funzione di deterrenza, si propone il riarmo dei singoli paesi dell’Unione, indicando la cifra vertiginosa di 800 miliardi di euro.
Ma l’Europa negli ultimi decenni ha già notevolmente incrementato le spese militari, tanto da occupare il secondo posto nella graduatoria mondiale. Per questo l’intenzione di investire massicciamente nel settore bellico suscita nella società civile, nei movimenti, associazioni, organizzazioni sindacali da sempre impegnati nella promozione della pace, una netta contrarietà. Sappiamo, infatti, che la chiamata al riarmo ha sempre inasprito, nella storia, le relazioni internazionali, fomentato i nazionalismi, radicalizzato le controversie, aperto la strada a nuovi conflitti. Oggi, in un contesto di instabilità globale, di ridefinizione dei rapporti tra le potenze, di aspre guerre commerciali, ciò acquisisce ulteriore senso. Pertanto, riteniamo che le ingenti risorse destinate dall’Europa alle spese militari non possano essere sottratte alle spese sociali, debbano invece sostenere i servizi sanitari pubblici già fortemente ridimensionati, l’istruzione, l’università e la ricerca, la transizione ecologica e la messa in sicurezza dei territori, le politiche industriali e del lavoro, per garantire a tutti un reddito dignitoso. L’Europa di cui vogliamo essere cittadine e cittadini deve prendersi cura dei suoi abitanti, costruire coesione e non divisione, essere solidale e giusta, salvare vite nel Mediterraneo, offrire accoglienza ai richiedenti asilo, non farli precipitare nell’inferno dei lager libici o dei centri di detenzione costruiti fuori dalle sue frontiere come quelli in Albania. Le politiche sociali sono il fondamento del vivere democratico. Senza queste, si lascerebbe spazio a quei partiti di estrema destra che dall’Ungheria all’Italia, dalla Germania alla Francia, con posizionamenti sovranisti, propongono assetti autoritari dello Stato, della famiglia, delle relazioni fra i generi, rafforzano il razzismo, chiedono la chiusura dei confini, preparando un pericoloso arretramento della nostra convivenza.
Crediamo sia doveroso allora assumere una responsabilità collettiva per portare nello spazio pubblico, anche a livello transnazionale, una richiesta di cambiamento, di costruzione della pace, come opzione necessaria e soprattutto possibile. Costruire la pace vuol dire concepire la politica come lo strumento che può interrompere ciò che sembra immutabile, sempre uguale a sé stesso, e può inaugurare il nuovo. Significa percorrere con ostinazione le strade della diplomazia, sostenere l’urgenza del disarmo, a partire da quello atomico, un traguardo perseguibile, come è accaduto con l’entrata in vigore, nel 2021, del Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, approvato dall’ONU e ratificato da 73 Paesi del mondo, ma non dall’Italia. Significa lavorare perché venga ristabilito il diritto internazionale che solo può salvarci dall’uso indiscriminato della forza e della violenza, appoggiare la riforma e il rilancio delle Nazioni Unite in un quadro di multipolarismo, dove nuovi e vecchi soggetti possano collaborare, dove a tutti i popoli sia riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e alla costruzione del proprio futuro. Senza dimenticare che le guerre esprimono sempre il volto più estremo del patriarcato. Un sistema di potere che opprime ancora la vita delle donne, ma che durante i conflitti armati si accanisce particolarmente sui loro corpi e sulla loro autonomia.
Per tutto questo è importante oggi essere qui. Abbiamo bisogno di cerimonie civili per fare memoria viva dei nostri partigiani e partigiane, per mantenere salda la connessione con le loro esistenze, con le scelte morali che seppero compiere. In tempi di sopraffazione e di terrore guardarono avanti, immaginando un mondo dove ristabilire il senso perduto dell’umanità, dove ogni vita potesse riacquistare valore, nella giustizia, nella libertà, nell’esercizio di irrinunciabili diritti. È questa l’eredità che dobbiamo raccogliere, dando continuità alla loro resistenza, tenendo stretta la Costituzione, misurandoci, insieme, nell’esercizio difficile ma indispensabile della speranza.
Viva il 25 aprile! Viva la Costituzione! Viva la Pace!
Annalisa Comuzzi, Donne in Nero di Udine