Orazione di Andrea Zannini per la commemorazione al cimitero San Vito di Udine il 9 febbraio 2025


Ottant’anni fa, in questi giorni, si svolgeva in questo luogo uno degli episodi tragici che segnarono le ultime settimane della Seconda guerra mondiale in Friuli. Ventitré detenuti nelle Carceri di Udine, quasi tutti partigiani, vennero portati fuori dalla casa di via Spalato, messi in fila davanti al muro di questo cimitero, e falciati da un plotone di esecuzione. La loro colpa, secondo la sentenza di un Tribunale speciale, non era personale, come in qualsiasi sistema umano di diritto: furono individuati ed uccisi per rappresaglia, per l’uccisione di due guardie giudiziarie nel carcere di Udine.

I fatti sono noti. Qualche giorno prima, con un audace colpo di mano, i GAP avevano liberato da via Spalato 73 prigionieri politici, 2 sacerdoti e 3 militari inglesi. Fu un’azione militare con pochi paragoni nella lotta di liberazione, uno smacco per le SS e la Milizia di Difesa Territoriale che reggevano l’ordine pubblico e il sistema penitenziario a Udine. A quell’affronto i nazifascisti replicarono con il solo strumento che conoscevano: la rappresaglia e il terrore.

Colpisce la data di questa fucilazione, poche settimane prima della fine della guerra, le cui sorti erano ormai facilmente intuibili. I tedeschi avevano ormai perso la Francia e a est, negli stessi giorni di febbraio, lasciavano anche Budapest. Nella nostra regione quei giorni furono, ciononostante, momenti terribili. Si ebbero fucilazioni ed uccisioni di massa a Cervignano, Terzo, Feletto, Tricesimo, poi le stragi di Avasinis e Ovaro, ai primi di maggio, quando Hitler si era già suicidato, Mussolini era stato giustiziato e il nord Italia era già libero dal giogo nazifascista.

Dei ventitré fucilati conosciamo i dati fondamentali; solo due ci restano quasi sconosciuti. Erano in gran parte giovani, tra i 20 e i 30 anni: il più vecchio, Giovanni Zambon di Cavasso Nuovo, aveva meno di 50 anni, quattro ne avevano 18, e voglio ricordare qui i loro nomi, erano Carlo, Michele e Reno Bernardon e Gino Zambon, tutti anch’essi di Cavasso Nuovo. Non si fa fatica a immaginarli, coscritti, compaesani, chiamati alla leva con l’ultimo bando Graziani, che praticamente andò deserto, che passano con le bande partigiane, magari nella speranza che di lì a poco la guerra finisca.

I quattro diciottenni erano uno studente, due operai, un manovale. Due militavano nella divisione Garibaldi Sud Arzino, uno nella Prima Divisione Osoppo, uno nella Divisione Garibaldi Carnia. Cosa voglio dire con questo? Voglio prima di tutto dire che dopo l’8 settembre 1943 il rifiuto del fascismo, e della suicida alleanza con Hitler, provenne dall’intera società italiana, da tutte le sue componenti: a partire da quella classe contadina che dopo il 1922 aveva accettato ma subito il fascismo, per proseguire con quella classe operaia che, grazie alla sua politicizzazione, aveva da tempo chiuso con Mussolini, fino alla borghesia. Borghesi erano ad esempio molti di quegli ufficiali che – dopo aver combattuto le guerre di invasioni dell’esercito regio – rifiutarono, sulla base proprio del giuramento al re, la Repubblica Sociale e sopportarono la deportazione e i campi di internamento, oppure entrarono nella fila del movimento di liberazione.

La seconda cosa sulla quale vorrei richiamare la vostra attenzione è che qui, in Friuli, a causa della questione orientale e di tragedie come quella dell’eccidio di Porzus, siamo portati a sottolineare le differenze interne del movimento resistenziale. Ma, come scrisse nei mesi dopo questi fatti un partigiano osovano, Ezio Moro, tra le due formazioni, quella – «comunista» e quella «nazionalista» – così egli le chiamava – vi potevano essere «diversità di vedute» ma mai divergenza sugli obiettivi finali, e cioè «nuova democrazia» e nella «rinascita della Patria». «Quanto si è detto ed anche scritto» sui «dissensi che inevitabilmente si manifestarono» tra le due formazioni, prosegue Moro, «non è preciso» e «di fronte al pericolo più immediato il rosso di fondeva con il verde».

Il rosso dei fazzoletti dalla Garibaldi si fuse con il verde di quelli dell’Osoppo non solo qui, sul muro del cimitero di Udine, ma in quasi tutto il Friuli. Osoppo e Garibaldi combatterono praticamente ovunque assieme. Soprattutto combatterono e morirono assieme i loro uomini, come i quattro giovani di Cavasso che terminarono qui la loro esistenza e per i quali, io credo, ogni differenza, ogni scelta personale fosse assolutamente irrilevante rispetto alla scelta fondamentale che li accomunava di combattere per un’Italia libera.

Negli ultimi vent’anni, in manifestazioni come queste, siamo continuamente portati ad utilizzare parole come “ricordo” e soprattutto “memoria”. Il «discorso memoriale», così è stato chiamato, ha ormai sostituito la storia, cioè la ricostruzione ordinata degli eventi, secondo alcune regole che la nostra civiltà occidentale si è data da circa 25 secoli: la ricerca dell’oggettività, l’analisi delle fonti, il confronto tra le ipotesi ecc. Tutte quelle cose che ci insegnano a scuola e alle quali normalmente prestiamo poca attenzione.

La memoria, il dovere della memoria sul quale noi costruiamo incontri come questo, è in realtà una cosa diversa. Perché la memoria è innanzitutto un processo personale e non collettivo. Non può esserlo: tutte le formule in auge negli ultimi anni, “memoria condivisa”, “memoria collettiva” sono formule suggestive ma contraddittorie: la memoria resta un processo psichico individuale.

Il successo dell’idea che il passato formi una memoria generale è dovuto alla suggestività della memoria, alla sua capacità di suscitare emozione, di coinvolgere i sentimenti. Questo è un processo esattamente opposto a quello della storia, materia asettica per eccellenza, che rifugge dall’emozione che, come tutti sappiamo, riduce il discernimento e lo spirito critico.

La memoria non costruisce conoscenza ma identità. Serve ad erigere appartenenze, auto-riconoscimenti, proiezioni personali e di gruppo. Così, grazie anche al moltiplicarsi delle giornate della memoria, del ricordo, alle ricorrenze, alle celebrazioni, insomma all’”uso politico della memoria” abbiamo assistito negli ultimi decenni alla costruzione di una sorta di “storia fai da te”, che ogni singolo gruppo promuove e porta avanti secondo le proprie esigenze di auto-riconoscimento. Gli esempi sono talmente evidenti che non serve che ve li stia a ricordare.  Ma li ho ben chiari, parlando spesso a commemorazioni di ogni tipo, per qualsiasi parte politica.

Dove voglio arrivare? Voglio dire che questo tipo di uso del passato, che è centrato sul racconto piuttosto che sull’analisi dei problemi, va bene – può andare bene – nel contesto di una società che condivide gli stessi valori democratici, e dove l’utilizzo politico della storia, filtrata attraverso la memoria, serve a posizionarsi, ma anche a relazionarsi. Attraverso la memoria si costruiscono miti fondativi, si inventano tradizioni, oppure si riscrive la storia ad uso del presente: ne abbiamo non pochi esempi anche nella nostra Regione, purtroppo.

Insomma, la ricostruzione del passato basata sulla memoria, è una scorciatoia che vale fino a un certo punto.  Al massimo conduce al “mai più”. “Mai più” che questo si ripeta: mai più il sistema dei campi di concentramento, la barbarie nazifascista, mai più le foibe, l’espulsione e quindi l’esodo di centinaia di migliaia di persone dalle terre dove abitavano da tempo.

Ma quel “mai più” – care cittadine e cari cittadini di Udine – quel “mai più” – scusate il bisticcio di parole – non basta più. Perché? Perché nel ventre di quella Europa democratica, liberale, sociale che ha trasformato le tragedie della seconda guerra mondiale in un evento da ricordare, in un mattone di passato comune in cui tutti i democratici dovrebbero riconoscersi, all’interno di questa Italia e di questa Europa che sono sorte dalla lotta contro il nazifascismo stanno rinascendo i figli di quella barbarie che si scatenò qui, sui 23 fucilati contro questo muro.

Fatemi fare due esempi, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Il presidente incaricato del governo austriaco Herbert Kickl – ripeto il presidente incaricato, non un qualche parlamentare dell’opposizione – si fa chiamare Volkskanzler (“cancelliere del popolo”), come si faceva chiamare Adolf Hitler nel corso della campagna politica del 1933. La leader di Alternative für Deutschland Alice Wendel ha poi definito il Führer un comunista e il nazismo una forma di socialismo. Non serve che vi ricordi come queste posizioni trovino sostegno in altri continenti, con espressioni e formule che farebbero inorridire i padri della lotta europea al nazifascismo. E’ la stessa idea di rifare le nazioni di nuovo “grandi”, Make Nations Great Again, contro tutte le istituzioni internazionali sorte nella seconda metà del Novecento, l’errore che rpuò riportarci sull’orlo di quel precipizio su cui l’Europa ha camminato per trent’anni.

Mi fermo qui. Tutti seguiamo questo moltiplicarsi di segnali di ritorno non di un fantomatico “fascismo eterno”, ma dei contenuti antidemocratici, xenofobi e perfino razzisti sui quali si è costruito, qui in Italia prima che altrove, cento anni fa il totalitarismo di destra.

Di fronte a questo pericolo incombente, il “mai più” non è più sufficiente. Deve essere messa in campo la storia, l’unica che può dar corpo non a semplici parole d’ordine, ma ad un nuovo, più saldo progetto di società futura in grado di combattere il messaggio moderno, eversivo, purtroppo efficace delle destre europee. “IO sono una forza del passato”, scriveva il nostro più grande poeta, Pier Paolo Pasolini, che piegava meglio di ogni altro il senso della storia che viene da lontano:

Io sono una forza del Passato

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle Chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi,

dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Il nerbo di questo progetto che trae linfa dalla storia – la storia che oggi qui noi celebriamo – non può che consistere prima di tutto in due parole, le sole in grado di combattere il ritorno del nazionalismo: Europa unita.

Vi prego di scusarmi. La commemorazione dei 23 uomini che qui sono stati uccisi ottant’anni fa mi ha portato forse lontano, a parlare dell’oggi e a immaginare qualcosa per il futuro. E’ forse anche questo il segno che la loro morte non è stata vana.