Ringrazio l’Anpi per questo invito che mi onora profondamente e saluto i rappresentanti delle istituzioni e voi tutti, cittadine e cittadini, antifasciste e antifascisti.
Nel nostro calendario civile il 25 Aprile si scrive in maiuscolo, è l’Anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Il Paese è in festa; noi oggi, qui a Borgo Villalta, siamo in festa, accanto alla memoria scolpita nella pietra, al cospetto di 22 nomi e della loro scelta.
È la Festa della Liberazione, è la gioia di una storia che arde ancora, ogni giorno, di un fuoco vivo.
Nessuno tocchi questa storia! Nessuno tocchi più questa storia!
Decenni di banalizzazioni, di distorsioni e di revisionismi hanno costretto la Resistenza a difendersi da attacchi reiterati e vili. Il bersaglio è sempre la guerra partigiana, schernita e vilipesa come qualcosa di inutile, o persino di dannoso. Si intende ribaltare il significato profondo di quei venti mesi in cui migliaia, e poi decine di migliaia e infine centinaia di migliaia di giovani uomini e donne hanno volontariamente deciso di combattere, con la coscienza di dover rifondare radicalmente un paese.
Sì, coscienza.
Perchè quando l’8 settembre 1943 crollò lo Stato, tutti furono lasciati soli con la propria coscienza. Di colpo le istituzioni scomparvero; nel marasma della fuga del re, dell’ignavia dei generali, della brutalità dei fascisti e dei nazisti, ognuno fu costretto a riappropriarsi della pienezza della propria coscienza.
La Resistenza nacque innanzitutto da qui, da una scelta, da una sorta di resa dei conti con se stessi.
Dopo l’8 settembre 1943, nello scenario comune di un’esistenza segnata dalla paura, dalla fame, dall’incubo della guerra e della morte, non tutti reagirono allo stesso modo.
I ceti medi precipitarono in una sorta di rassegnazione stupefatta, aspettando che tutto finisse.
La classe operaia, invece, visse quella fase all’insegna di un grande protagonismo collettivo, si riappropriò dell’arma dello sciopero e della fabbrica come centro di organizzazione politica.
Fu così anche per le donne: uscirono dalle stanze domestiche, si sostituirono ai mariti, ai padri e ai fratelli, che erano lontani a combattere o costretti alla macchia per sfuggire alle rappresaglie e ai rastrellamenti, e garantirono la sopravvivenza della famiglia e divennero, a loro volta, protagoniste: prestarono assistenza, combatterono in prima persona, rischiarono la vita, furono arrestate, torturate, deportate, fucilate.
Sono storie di incredibile coraggio e di immensa libertà, le loro. Troppo spesso identificate come figure minori della Resistenza – una costante che purtroppo riguarda tuttora le donne in ogni campo –, imbracciarono le armi, in montagna e in città, organizzarono gli approvvigionamenti, divennero “staffette” sfidando posti di blocco, perquisizioni e paura, ciclostilarono i volantini con cui diffondevano le loro idee. Idee di pace, di libertà, di uguaglianza, idee per un’Italia e un’Europa diverse da quelle in cui erano cresciute.
Scelte, appunto. Ciascuno la propria, secondo coscienza.
A queste, se ne intrecciarono tantissime altre, individuali, persino intime, un mosaico difficile da ricomporre in un quadro perfettamente unitario, che però restituisce un’immagine luminosa e sorprendente.
L’ebbrezza di reimpadronirsi del proprio destino è descritta perfettamente dal partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, quando decide di salire in montagna: “Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso giusto, legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava il vento e la terra.”
I partigiani e le partigiane piegavano il vento e la terra.
Sappiamo oggi che la Resistenza non è stata “lotta di tutto un popolo”, così come a lungo è stata definita, ma di una vasta minoranza attiva di uomini e di donne, i “pochi”, che hanno scelto sulla base delle più diverse motivazioni ma secondo coscienza, di opporsi, con modi e mezzi differenti, a un regime e a una guerra sentiti come sciagurati, opprimenti e non più tollerabili.
La Resistenza è “di tutti” perché i “pochi” sono stati espressione di ogni componente della società, diversa per condizione sociale, culturale e politica, per genere e per generazione, per provenienza geografica e nazionalità; la Resistenza è “di tutti” perché quei “pochi” non hanno agito da soli e hanno anzi consolidato attorno a sé, sui monti, in pianura e nelle città, un consenso generoso; e soprattutto la Resistenza è “di tutti” perché quei “pochi” hanno agito, pensato, combattuto non solo per sé ma per la collettività.
E noi, oggi, cosa facciamo? Come raccogliamo questa eredità?
Perchè il 25 aprile è un appello alle nostre attuali responsabilità.
L’Italia soffre spesso di smemoratezza e opportunismo.
E si ammala, si ammala di de-sistenza, come l’ebbe a definire Piero Calamandrei: cioè l’esaurimento del moto politico e morale che attraversò quegli anni, “la facilità all’oblio, il rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, il riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”.
Il fascismo ha cambiato pelle talmente tante volte che è ormai impossibile si ripresenti con addosso il fez e la camicia nera, tende semmai a mostrarsi come “conciliatore”, proponendo una riappacificazione finalizzata non tanto ad abbandonare definitivamente le proprie posizioni, quello, oh sì, sarebbe riconciliatore, ma a spingere la storia italiana nell’oblio. Dimenticare i pestaggi, gli arresti e gli omicidi, dimenticare il confino, dimenticare Matteotti e Gramsci, dimenticare l’invasione dell’Etiopia, le leggi razziali, dimenticare l’“italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone e i crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani, dimenticare l’ingresso in guerra al fianco di Hitler, la guerra, la collaborazione alla deportazione nei campi di concentramento, dimenticare il concorso alle tante stragi naziste.
Dimenticare tutto ma diffondere, insistentemente e subdolamente, presunte zone d’ombra della Resistenza.
Allora oggi l’antifascismo deve, prima di tutto, saper riconoscere il fascismo.
Il fascismo non è mai morto, resta sepolto nelle pieghe più oscure della nostra società e negli angoli più reconditi della nostra coscienza nazionale, pronto a riemergere al momento opportuno.
E da troppi oggi è rivendicato con un innaturale orgoglio della vergogna. Un ossimoro efficacissimo: i neofascisti nutrono l’orgoglio della vergogna.
Il fascismo è soggetto a mutamenti e ricontestualizzazioni, è un contenitore semi-vuoto che può, però, riempirsi di senso a seconda di come, quando e perché si inseriscano dei contenuti.
L’allontanarsi nel tempo della Resistenza può tendere a confinarla in un ruolo episodico, un momento tra i tanti del ‘900; mentre, al contrario, il virus fascista non ha mai smesso di mutare e adattarsi. Abulia, sufficienza morale, culto della disciplina e della forza, razzismo, censura, repressione del dissenso, disposizione a sacrificare la libertà per l’autorità, retorica nazionalista, militarismo, personalizzazione del potere politico, inclinazioni illiberali, prassi autoritarie (penso al ddl sull’Autonomia differenziata e alla riforma del premierato): non sono i tratti del Ventennio, sono le ombre fosche e minacciose che oscurano questa fase calante e complessa della democrazia occidentale.
La Repubblica edificata su quei venti mesi – e su tutto il lavoro degli antifascisti negli anni precedenti – mostra, di sovente, di non esserne all’altezza: nelle sue istituzioni, nella classe dirigente, ma anche, e più banalmente, nel suo popolo.
Le ragioni di questa degenerazione hanno a che fare, certo, con la crisi sociale, e con la parallela crisi della politica per come l’abbiamo conosciuta noi la politica nel ‘900 (i partiti, i sindacati, gli ormai detestati corpi intermedi), ma sono anche lo specchio di una disfatta culturale netta, quella che ha pensato che l’antifascismo fosse una reliquia del secolo scorso.
E noi, allora, cosa facciamo?
Pratichiamo la memoria, innanzitutto.
Illuminiamo il bene e il male, scardiniamo tutto l’impianto mistificatorio di certo sciagurato revisionismo che spiega quel periodo come una guerra civile tra parti ideologicamente e politicamente uguali, una sorta di carneficina dove fascisti e partigiani si ammazzavano a vicenda come in una battaglia tra bande.
Pratichiamo la memoria pedagogica. L’educazione è un tema decisivo. C’è un divario da colmare urgentemente, perché la scuola non ha assolto, oppure lo ha fatto in maniera insufficiente, a uno dei suoi doveri fondamentali: quello di creare un effettivo senso di cittadinanza, una cultura della democrazia, basata sulla conoscenza reale, non deformata, della nostra storia più recente.
Pratichiamo la Pedagogia dell’Antifascismo.
Antifascismo è una parola importante, non è un valore astratto, ma è parola calata in una realtà storica, e noi ne siamo parte; l’antifascismo non è una generica bontà, e nemmeno un indistinto spirito di tolleranza, ma è un termine che ha un senso per il presente, un concetto pieno, rotondo, che esiste da più di un secolo e che indica una certa idea di mondo, in antitesi a tutte le idee che invece ritengono che quelli della tutela della libertà, della difesa delle minoranze o del senso di giustizia contro gli oppressori non siano dei valori condivisi.
L’antifascismo è un modo etico, e quindi perenne, di porsi di fronte alla realtà sociale e politica, è una pedagogia, appunto.
Pedagogia dell’antifascismo. E con quali strumenti?
Con la cassetta degli arnesi della Costituzione: il valore della libertà, il diritto all’uguaglianza e alla giustizia sociale, la solidarietà, il fondamento del lavoro, il valore della partecipazione democratica e della pace fra i popoli.
La pace fra i popoli!
Il 25 aprile, dunque, non è solo storia ma attraverso le storie dei suoi protagonisti è il promemoria vivente che, anche nei contesti più difficili, anche se siamo in minoranza, anche siamo noi “i pochi”, anche se è faticoso, noi possiamo scegliere secondo coscienza.
Scegliere e lottare.
Mi sono care le parole della storica Irene Bolzon: “Di chi è il 25 aprile? – si chiedeva-. Il 25 aprile non è di qualcuno, ma è qualcosa. È il simbolo di una comunità antifascista da sempre plurale. Il 25 aprile non è mio, sono io che sento di appartenergli.”
Siamo tutti noi che gli apparteniamo.
Buona Festa della Liberazione a voi tutti, viva i partigiani e le partigiane che piegavano il vento e la terra, viva l’Italia antifascista!