Noi però gli abbiamo fatto le strade di Francesco Filippi
recensione a cura di Carlo Baldassi , comitato direttivo Anpi “Città di Udine”
Stimolante questo agile saggio di F.Filippi sul colonialismo italiano durato effettivamente circa 60 anni, col suo percorso di mistificazioni propagandistiche e invasioni violente.
I temi vengono presentati per fase storico-politica: Partenze (da fine ‘800), Arrivi (balle coloniali), Contatti (repressioni, razzismo e ..opere civili), Ritorni (la memoria post coloniale nell’Italia repubblicana) e Rigurgiti (cosa rimane).
Filippi chiarisce subito: anche ‘l’imperialismo straccione’ italiano ha fatto parte della narrazione del ‘fardello dell’uomo bianco’ (Kipling) col suo compito ‘civilizzatore’ e dunque ‘giustificato’ nel suo dominio. Parvenu alla ricerca di un prestigio internazionale agognato e di ipotizzate facili risorse economiche, l’Italietta liberale arriva quasi per caso a Massaua (1882) e quindi si lancia alla conquista della Tripolitania (1911), poi la Somalia e infine l’Etiopia sino alla sconfitta fascista nel 1941/43.
Certo il colonialismo italiano fu minore e tardivo (e spesso fu un sub-colonialismo pilotato dalla Gran Bretagna allora leader mondiale), usato anche per fini di politica interna, costoso e mal organizzato (con relative malversazioni soprattutto durante il ventennio) e privo di adeguate conoscenze e capacità di gestione di territori sconosciuti. Non fu però – soprattutto in Libia ed Etiopia – meno violento e razzista di altri, europei e non solo. Il nazionalismo – che porterà poi ai massacri della 1a guerra mondiale – ne fu il brodo di coltura: dalle mire italiche verso il Mediterraneo Orientale al Pascoli de ’la grande proletaria si è mossa’ e sino all’industria militare, sempre supportati dalla grande stampa borghese, Corriere della sera in primis (Montanelli compreso). La successiva e feroce conquista fascista dell’Etiopia fu l’ultimo esempio di una visione colonialista europea ottocentesca e vide anche la benedizione vaticana. Inoltre quella conquista generò anche un salto di qualità verso il razzismo, dipingendo i ‘negri’ come incapaci e ignoranti e compresi i relativi stereotipi sessisti (‘faccetta nera’ ecc).
Pochi in Italia furono attivamente contrari al colonialismo: nel 1911 i socialisti (Nenni e.. Mussolini in carcere) e pochi liberal, sino a Giustizia e Libertà e soprattutto i comunisti espatriati durante il ventennio che denunciarono ampiamente l’imperialismo fascista.
Ma dopo la Liberazione e dopo il Trattato di Parigi 1947? Certo, oltre alla ricostruzione postbellica urgevano altri problemi (in particolare Trieste e la guerra fredda), ma purtroppo i governi centristi cercarono di obliare quei temi, compresi i crimini di guerra delle truppe italiane da Graziani in Africa a Roatta in Jugoslavia. L’aver perso le colonie con la guerra impedì insomma per molti anni una discussione pubblica sul colonialismo liberale e fascista, così che emerse una visione in parte autoassolutoria (noi però gli abbiamo fatto le strade) del colonialismo italiano ‘buono’ o almeno non peggiore di altri (che pure anch’essi costruirono strade..). Così a parte le sinistre politiche italiane, solo i lavori storici di A.Del Boca (Italiani brava gente) squarciarono dagli anni ’60 il velo tra oblio pubblico e qualche recriminazione nostalgica. I lasciti ancora visibili del colonialismo italiano sono molteplici: dai rapporti economici con gli ex colonizzati (v.il caso Gheddafi) ai monumenti depredati (Axum), dai negozi di ‘coloniali’ che si trovavano ancora qualche anno fa ai nomi di vie e piazze, sino ad espressioni popolari come ‘amba aradam’ sinonimo di confusione.
Certo oggi l’Italia accoglie molti studenti dall’ex AOI e si distingue per le sue missioni di pace (così in Somalia e in M.Oriente) ma non sempre tutto è così lucente, né possiamo dimenticare il neocolonialismo economico che i paesi ricchi (non solo occidentali) praticano tutt’ora, anche se in modi diversi e non di rado con la complicità di regimi locali. Insomma la nostra Costituzione antifascista ci dice che c’è ancora da fare per capire e superare ogni ambiguità storica e attrezzarsi in modo equilibrato anche verso l’immigrazione. Ma – aggiungo io – senza rincorrere aprioristici eccessi ‘antieuropei’ o tardive facilonerie ‘pseudorisarcitorie’.
P.S. A proposito di strade. I miei nonni materni furono tra i coloni friulani che nel 1936 andarono in Eritrea per lavoro, spesso costretti dalla grande crisi capitalistica iniziata nel 1929. Così nonno Secondo – un bravo artigiano edile – per anni costruì strade (ovviamente militari) sull’altopiano tra Cheren e Agordat. Dopo iniziali difficoltà acquistò una modesta casetta col cortile (abbiamo la foto dell’edificio nel Villaggio Mussolini di Asmara) ma con la guerra la famiglia perse tutto e mia nonna e i figli tornarono in Italia con le navi bianche autorizzate dagli inglesi nel luglio 1943. Da bambino la nonna mi affascinava parlando degli animali dell’Africa e delle vicende vissute coraggiosamente. Fortunatamente qualche anno fa un mio zio – primo dei figli – ha raccolto le sue memorie di quegli anni e nelle pagine, oltre ai ricordi di famiglia, c’è ovviamente il lavoro degli italiani e qualche personale nostalgia degli anni giovanili passati in una terra ‘speciale’, ma anche rispetto per le genti locali e di cui lo zio stesso aveva imparato rapidamente il dialetto.