Mancò la fortuna non il valore di Fabio De Ninno, Editori Laterza
recensione a cura di Carlo Baldassi , comitato direttivo Anpi “Città di Udine”
Il titolo del saggio richiama il motto sul cippo di El Alamein che ricorda i reparti delle divisioni Folgore, Ariete ecc. sconfitti dai britannici dopo coraggiosa resistenza nel novembre 1942. Anche oggi durante le celebrazioni militari e nelle sfilate istituzionali ricordiamo doverosamente i soldati italiani caduti in battaglia (erano quasi sempre figli del popolo) ma soprattutto sottolineiamo il legame del nuovo esercito con la Repubblica che ‘ripudia la guerra come strumento di offesa’. (art.11 Cost.) Purtroppo tutt’ora – causa un certo ‘patriottismo militare’ – c’è chi accantona o minimizza il ‘perché storico’ di quelle battaglie e vicende in particolare della 2a Guerra Mondiale: ad es. ‘che ci facevano gli alpini in Russia’? E si ‘dimentica’ così come nei drammi e nelle sconfitte di allora le responsabilità principali furono – oltre che del ‘duce’- dei comandi superiori. Basterebbe ricordare lo stesso scarso credito di cui godevano molti nostri generali presso tedeschi e alleati, sino alla fuga ignominiosa dello Stato Maggiore e del re fellone l’8 settembre 1943 (cfr. R.Spazzali: ’Il disonore delle armi’ – 2023).
Questo agile lavoro di De Ninno intende ribadire come l’imperialismo ‘straccione’ del regime di Mussolini – oltre le violenze, le spacconate e il ‘sabato fascista’ – fu in realtà un enorme imbroglio che crollò nel 1943 con una guerra di aggressione cercata e perduta tragicamente che costò lutti e miserie al popolo italiano. Derivanti in parte dal nazionalismo dell’Italia liberale e dal mito della ‘vittoria mutilata’ nel 1918, anche le guerre del regime ebbero come uno degli obiettivi prioritari il Mediterraneo Orientale (dove dominava la Gran Bretagna) ma si allargarono ben presto in collaborazione con l’alleato nazista su vari fronti, dall’Africa settentrionale ai Balcani e all’URSS. In quelle guerre i vertici delle Forze Armate (e le lobby delle armi) furono sempre complici, soddisfatti per gli ingenti investimenti effettuati dal regime e per l’influenza sociale esibita in patria ma – come si vedrà drammaticamente – evidenziando strategie militari approssimative aggravate da armamenti superati ed ai quali il solo coraggio dei soldati non poteva supplire.
Dopo la descrizione sintetica dello stato di (im) preparazione al conflitto per ciascuna delle Armi, l’A. si sofferma sulle negative capacità di comando di Mussolini che – ad onta delle pose militaresche ancora oggi in circolazione (???) e del mito del ‘cesarismo totalitario’- ‘fu un pessimo condottiero militare’ (pagg.33 e sgg).
Anzitutto (al contrario delle contemporanee concezioni diffuse in Occidente) ‘..nell’Italia fascista la guerra divenne una scelta ..ritenuta un naturale prodotto dello sviluppo di potenza’.. così.. ‘la disconnessione tra politica e guerra interagì con la personalità di Mussolini’. (pag.41) Inoltre Mussolini – privo di una cultura militare adeguata (era stato solo caporale nel 1915) e diffidente verso vertici militari spesso già mediocri per conto loro – non comprese le fondamentali connessioni tra processi economici e organizzativi tipici di una guerra moderna. A questo si aggiungeva lo scarso coordinamento tra le Armi di cui lo Stato Maggiore del re – e in particolare il maresciallo Badoglio (sempre lui..) – portava responsabilità evidenti. (ivi pag.44 – cfr. anche Rochat 1978).
Dunque – dopo gli iniziali mesi di forzata ‘non belligeranza’- cosa spinse Mussolini nel giugno 1940 a imbarcarsi follemente nella guerra vera? Furono certo le vittorie-lampo di Hitler in Francia e la ipotizzata resa della Gran Bretagna (che così avrebbe dovuto anche abbandonare il Mediterraneo) ma vi influì soprattutto la sua idea di ‘guerra parallela’ con Hitler considerato alleato e competitore.
Questo portò il caporione fascista a dissipare ulteriormente le risorse militari – già ridotte dalle precedenti avventure in Etiopia e in Spagna – disperdendole su troppi fronti pur di garantire una qualche presenza all’esercito italiano. (pag.54 sgg)
Così nell’autunno 1940 – nonostante i primi rovesci della Marina e le difficoltà in Africa – decise di ‘spezzare le reni alla Grecia’: disastro politico e militare con migliaia di alpini caduti ‘sul ponte di Perati’. Solo l’arrivo dei tedeschi (aprile 1941) permise all’Italia di ‘salvare formalmente la faccia’. ma ormai Mussolini era succube di Hitler.
E più le cose andavano male, più il ‘duce’ entrava in paranoia: dopo che l’Italia aveva già perso l’Africa Orientale e su tutti i teatri emergeva evidente l’inferiorità delle forze armate italiane, mentre le nostre città venivano bombardate, nel dicembre 1941 Mussolini dichiarò guerra…anche agli Stati Uniti e poi tra il 1941 e l’estate 1942 volle portare ben 230 mila soldati dell’ARMMIR ad aggredire l’Unione Sovietica… a dorso di mulo (quasi 100 mila non tornarono).
Da quella tragedia umana e militare prendeva corpo la crisi finale del fascismo poichè – accanto alle drammatiche vicende sui vari teatri – cominciava a crollare anche il fonte interno. I racconti dei feriti che tornavano, la grave carenza alimentare per i civili, la mancanza esiziale di materie prime e di componenti belliche, le città sotto attacco aereo, ecc. generavano non solo ‘mugugni’ più alti ma ormai anche il distacco popolare dal regime. E nel marzo 1943 si svolsero a Torino e Milano i primi grandi scioperi operai nell’Europa occupata, che diedero un ulteriore colpo al prestigio barcollante del fascismo. Da pag 124 De Ninno riassume molto bene la situazione, compresi le vittime e il crollo del clima sociale, così che – dopo Stalingrado e la resa in Tunisia- si concretizzava il finale di stagione con l’invasione alleata della Sicilia nel luglio 1943 e quindi con il colpo di palazzo del 25 luglio e la destituzione di Mussolini. Il successivo tragico periodo della RSI di Salò – serva dei nazisti – non fu altro che un’agonia feroce che provocò la guerra civile contro quella minoranza coraggiosa di resistenti (compresi il CVL e gli IMI in Germania) che invece salvò l’onore dell’Italia.
Nelle conclusioni De Ninno giustamente sottolinea come ‘..a distanza di ottant’anni si continua a minimizzare la portata della sconfitta militare italiana del 1940-43, ricorrendo all’esaltazione di pochi episodi che dovrebbero far dimenticare una catastrofe che trova origine anzitutto nel fallimento del fascismo come regime di guerra… Perciò solo ‘..un confronto pieno e autentico…porterà a superare una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimistica e autocelebrativa che tende a rimuovere che nel conflitto a fallire fu il fascismo’. (pag.184).