LA MEMORIA DIMEZZATA I campi fascisti nelle testimonianze slovene di M.Verginella – O.Luthar – U.Strle, Donzelli editore
recensione a cura di Carlo Baldassi , comitato direttivo Anpi “Città di Udine”
Per decenni – a causa del mito del ‘bono taliano’ e degli equilibri della guerra fredda – era calato il silenzio ‘di stato’ sui crimini commessi dalle truppe fasciste in vari teatri: Libia, Etiopia, Spagna, Russia e nei Balcani. Un silenzio/disinteresse di chi ancora oggi minimizza la durezza (e i lasciti) del passato regime e utilizza in modo ambiguo termini come ‘patrioti’ e ‘nazione’…magari con la ‘fiamma’ sul simbolo.
Con l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia dell’aprile 1941 l’Italia di Mussolini aveva inglobato la parte occidentale della Slovenia – la ‘provincia di Lubiana’ compreso il capoluogo – che occupò con una crescente violenza sino al settembre 1943 (ed a cui seguirono nella Venezia Giulia le repressioni nazifasciste sino al 1945). Va ricordato peraltro che la politica antislava del fascismo di confine si sviluppò sin dagli anni ’20 con l’attività sistematica di snazionalizzazione (chiusura di scuole, di istituzioni culturali, banche e attività economiche degli ‘allogeni’) e poi punendo i vari fenomeni di resistenza (es. del TIGR) con 5 mila condanne del Tribunale Speciale e 40 fucilazioni di patrioti sloveni e croati (cfr. Verginella, Cattaruzza, Pupo ecc).
Dopo un inizio di occupazione che pretendeva di essere più ‘morbida’, durante la guerra e nelle frequenti rappresaglie comandate dal gen. Roatta – in particolare nella primavera/estate 1942 – le truppe fasciste si macchiarono di uccisioni, incendi di paesi e di deportazioni di civili per fare ‘terra bruciata’ attorno alle formazioni partigiane. Quelle deportazioni divennero il calvario per circa 35 mila uomini, donne e bambini soprattutto sloveni, deportati in decine di campi di prigionia tra cui i più tristemente famosi erano quelli di Arbe/Rab (isola del Quarnaro), Gonars (vicino a Udine), Ranicci (Ar) ecc.
‘I tipi..di internamento..differivano a seconda degli obiettivi delle autorità: (principalmente vi erano i detenuti).. a scopo repressivo.. ed a scopo preventivo’. (ivi)
Pur senza essere progettato né gestito per svolgere attività di sterminio organizzato (es. Auschwitz), ogni campo di detenzione fascista ‘..era un luogo in cui erano aboliti i diritti umani fondamentali e dove venivano internati vari gruppi di civili considerati pericolosi dallo Stato fascista per motivi razziali che politici. Bastava il sospetto (di aver aiutato i partigiani) per privare gli indiziati della libertà (anche se).. la maggior parte degli internati non era mai comparsa davanti ad un tribunale fascista’. (pag.10 sgg).
Le fasi furono due:
- a) all’inizio le autorità fasciste pensavano (?) ad un più favorevole retroterra culturale delle ‘docili e cattoliche’ popolazioni slovene già austroungariche ed ora ‘inquinate’ dal rude ‘dominio serbo’ (pag.40). Di conseguenza ci furono anche assurde ‘attese di riconoscenza’ che il fascismo (detentore di una ‘civiltà superiore’..) si attendeva dagli sloveni.
- b) Tutto cambiò dall’estate 1942 quando – di fronte al crescere dell’influenza dell’ELJ di Tito – l’occupazione divenne più rigida, esplicitata dalle circolari di Roatta, Robotti & c. che reclamavano una feroce repressione antipartigiana (’si ammazza troppo poco’- circolare 3C del marzo 1942). E quando dall’inizio del 1943 anche l’Italia stava sprofondando nelle miserie della guerra e della fame, le condizioni nei campi divennero ancora più drammatiche falcidiando in particolare vecchi e bambini che morivano quotidianamente. Quanti? Nonostante le ricerche in vari istituti italiani e jugoslavi, non risultano numeri totalmente concordi degli internati e dei decessi per le difformità o la sciatteria di registrazione nei campi, tuttavia stime ragionevoli indicano in circa 3 mila i civili sloveni e croati deceduti nei campi (circa duemila solo tra Arbe e Gonars).
L’analisi – documentaria e memorialistica – sviluppata del team di studiosi accanto alla brava M.Verginella, ha utilizzato una cinquantina di testimonianze personali di anziani ex deportati o loro figli raccolte sino al 2015 mediante interviste guidate, consapevoli delle possibili involontarie ‘distorsioni della mente’ (temporali, cambiamenti di parere politico ecc) ma anche del valore delle ‘vite vissute’ e della ‘storia orale’.
Vi si delineano le diverse motivazioni dell’internamento nei campi, legate come detto essenzialmente a presunte relazioni dei deportati con il movimento partigiano (pag.73 sgg), ma vi erano anche reparti separati per ‘proteggere’ collaborazionisti sloveni (compresi i cattolici e i domobranzi del MVAC). Quindi le modalità di arrivo (anche dopo pesanti marce forzate) e quelle della detenzione: strutture, condizioni sanitarie, disponibilità di cibo, violenze psicologiche e fisiche, situazioni di vita quotidiana e collettiva, la rara corrispondenza e i traffici per sopravvivere.
Dalle memorie emerge che il comportamento dei militari italiani non fu sempre oppressivo verso i reclusi, ma le violenze ‘ufficiali’ erano comunque abituali (pag.56 sgg) dovute all’indottrinamento del ventennio ed alla ferocia della guerra ma – in buona parte – anche alla disorganizzazione colpevole dell’esercito fascista.
Di particolare interesse sono le drammatiche testimonianze sui citati campi di Arbe/Rab e di Gonars divenuto ‘Campo di concentramento per internati civili’. Denudati all’arrivo per la disinfezione, i civili venivano regolarmente filmati dalle ‘troupe’ fasciste e ad Arbe sistemati in accampamenti di tende militari che non riparavano né dalla bora invernale né dal caldo estivo, generando condizioni di vita assai precarie. Oltre alle disastrose condizioni igieniche, ai pidocchi ed alla dissenteria, con un abbigliamento insufficiente, erano carenti il rancio e soprattutto l’acqua potabile aggravando i disagi dei più deboli che si ammalavano e morivano ogni giorno (da pag.108).
Leggermente migliore la situazione a Gonars dove vennero allestite baracche e servizi (al limitrofo campo di Visco è ancora tutto come allora) mentre in altre località minori i deportati furono accolti in caserme o altre strutture. In vari campi per sopportare l’inedia si organizzavano modeste attività ricreative e non di rado avvenivano visite di prelati cattolici italiani o sloveni che celebravano la messa. Le memorie citano anche atti di generosità spontanea di contadini italiani limitrofi ai campi e vi furono episodi di fuga, in particolare dove erano reclusi partigiani catturati nei rastrellamenti. Infine – dopo l’8 settembre 1943 e il crollo della struttura statale italiana – il ritorno a casa dei sopravvissuti spesso a piedi e cercando di sfuggire ai tedeschi. Alcuni si aggregarono ai primi partigiani italiani per poi – una volta tornati casa – entrare nelle formazioni titine
La lettura delle testimonianze genera sentimenti di dolore e indignazione, che concernono non solo le sofferte memorie delle vittime me anche le politiche delle autorità italiane nel dopoguerra, in particolare il rifiuto di consegnare alla Jugoslavia criminali di guerra come Graziani, Roatta e Ambrosi (v.pag.236) nel clima della guerra fredda che indirizzò anche il costituirsi di reciproche differenti memorie sulla vicenda. Ecco la ‘memoria dimezzata’.
La ‘politica della memoria’ diventa di fatto parte dell’immagine di un Paese e sfocia spesso nell’uso ‘pubblico della storia’ (cfr. D.Conti- 2023) con letture parziali e unilaterali. Così la complessa questione dei confini italo-jugoslavi nell’intero novecento e la ‘Fine dell’italianità adriatica’ (R.Pupo) nonostante almeno dal 2001 sia disponibile il lavoro bipartisan della Commissione congiunta degli storici italiani e sloveni che indagarono sulle colpe di entrambi, comprese le violenze e le foibe titine del 1943/45. E un aiuto ulteriore a superare residui di ‘vittimismo’ italico può venire dalla recente mostra ‘A ferro e fuoco’ a Trieste che illustra i disastri del fascismo antislavo (www.irsrecfvg.eu).
P.S. Anche nelle recenti celebrazioni ad Arbe in memoria dei civili ivi deportati, gli unici italiani doverosamente presenti sono stati i dirigenti Anpi.