INTERVENTO DI GIANFRANCO PAGLIARULO (ANPI NAZIONALE) ALLE CARCERI 8 APRILE 1945


INTERVENTO DI GIANFRANCO PAGLIARULO VICE PRESIDENTE ANPI NAZIONALE ALLA COMMEMORAZIONE DELL’ECCIDIO DEL 9 APRILE 1945 ALLE CARCERI DI VIA SPALATO DI UDINE – DOMENICA 8 APRILE 2018

Grazie alle autorità civili e militari, grazie al vicesindaco e ai sindaci dei tanti Comuni presenti, grazie all’ANPI di Udine, grazie a tutti voi cittadini, grazie alle partigiane e ai partigiani.

Grazie per avermi concesso un onore. L’onore di ricordare.

Sapete, “ricordare” è un verbo molto antico, composto da un prefisso che vuol dire “di nuovo”, o “ritorno”, e da una seconda parte che indica la parola “cuore” perché allora, un paio di migliaia di anni fa ed ancor prima, qualcuno pensava che fosse lì, nel cuore, la sede della memoria. Quindi ricordare vuol dire richiamare alla mente, ma anche richiamare al cuore.

Questo “ricordare” sembra coniato per oggi, per quei 29 partigiani finiti a colpi d’arma di fuoco qui dentro, presso le mura delle carceri di via Spalato.

Nome di battaglia “Tribuno”, come un magistrato eletto per difendere il popolo.

Nome di battaglia “Guerra”, come un obbligo morale davanti a quel tempo e a quella occupazione sanguinaria.

Per citare solo due dei tanti caduti: Mario Modotti e Mario Foschiani. E con loro tutti gli altri, uno per uno. Scrive il poeta Giuseppe Bartoli: “noi che cademmo a vent’anninel sogno sublime dei liberi”.

Il 9 aprile 1945 fu eseguita la sentenza del sedicente Tribunale speciale per la pubblica sicurezza della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico.

Ho letto che i condannati, mentre attendevano la fucilazione, cantavano.

Picchiati, torturati, azzannati dai cani, cantavano.

Cantavano come Orfeo, figlio di una Musa e sposo di una ninfa nel mito greco, e i boschi si muovevano e gli uccelli si commuovevano. Perché cantare, credo, contiene una magia, un’energia, una voglia di eternità. Sono morti, quei 29. Scomparsi, come le migliaia di udinesi, di friulani, travolti dallo Stato-bestia, il Terzo Reich, e dal suo sciacallo privato, la repubblica di Salò. Ma qualcosa è rimasto. Qualcosa che non si può dissolvere nell’aria come tutto ciò che è solido, perché non è solido. Che non può essere imprigionato, perché volerebbe via, attraversando le sbarre. Che non si può comprare, perché non è in vendita in nessun mercato e neppure su internet. Che non può morire, perché sempre si reincarna in altre persone.

Questo qualcosa sono le idee.

Luigi Ciol, uno di loro, uno dei 29, lo scriveva: “Un’idea è un’idea, e nessuno la rompe. A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli!”. Certo, ci sono idee e idee. Ci sono idee di morte, di bella morte, per citare l’abisso esistenziale e sociale dei repubblichini, e idee di vita. Quelle dei vostri, dei nostri caduti, erano idee di vita. La vita di chi riusciva a sopravvivere, dei familiari, delle generazioni future, compresa la nostra. Ma per dare un senso a quelle idee occorreva non fermarsi al pensiero. Occorreva la lotta – scrivevano – contro il fascismo e per la libertà dei popoli.

Come li possiamo chiamare i 29 partigiani fucilati? Vittime come chi si immola, o chi perde la vita in guerra? Certo. Martiri, come chi ha testimoniato i propri ideali nonostante la persecuzione, senza abiurare, e per questo è stato ucciso? Certo. Caduti, come chi viene ucciso nell’adempimento del proprio dovere? Certo.

Ma non solo. Erano innocenti, perché vi fu un processo farsa da parte di un tribunale farsa. Erano eroi, non solo per qualche impresa bellica, ma specialmente per l’esercizio di grandi virtù. Se posso utilizzare un paradosso, erano eroi normali, persone che avevano scelto di dare corpo alle proprie idee attraverso l’azione, consapevoli del rischio che questo loro impegno comportava. Ecco, noi ricordiamo oggi – cioè richiamiamo al cuore – quei 29, assieme vittime, martiri, caduti, innocenti, eroi normali.

Avveniva ad Udine il 9 di quell’aprile del 1945 che poche settimane dopo avrebbe celebrato proprio la vittoria di quei 29, e cioè la liberazione della città e del Paese. Una città che aveva pagato un prezzo altissimo. Poco prima, l’11 febbraio, erano stati fucilati alla Porta Est del cimitero di Udine 21 partigiani. Leggo i nomi dei 29 del 9 aprile e dei 21 dell’11 febbraio, e li scopro sempre insieme, uniti, delle diverse brigate e battaglionie divisioni, in particolare due: la Garibaldi e la Osoppo. Uniti perché il nemico era uno e uno solo: il nazifascismo per come si era storicamente configurato in questa terra. Uniti perché la risposta era una e una sola: la Resistenza a quel nemico, in una guerra che era rapidamente diventata non guerra civile, come se fossero tutti contro tutti senza distinzione di responsabilità e di colpe, ma guerra ai civili. E guerra ai civili fu, non solo come in tutte le zone occupate da Salò, ma oltre. Con qualcosa di più tragico, più atroce e funesto, la guerra di sterminio contro il popolo, come è stata chiamata: ed avveniva in questo territorio, come, con specifiche modalità, in tutto il Friuli e tutta la Venezia Giulia, definitiil confine mobile, che da lungo tempo era la frontiera dell’irredentismo, del nazionalismo, del fascismo, e, per contrappasso, dell’idea di libertà, democrazia, pace. Perché è vero che una linea disegna un confine, ma è anche vero – come mi ricordava questa mattina il presidente Dino Spanghero – che la stessa linea traccia una congiunzione: un grumo di Europa.

So di trovarmi in un territorio del tutto particolare rispetto al resto del Paese: perché raccolto, specie al nord, in una chiostra di monti, come scriveva Ferruccio Parri; per la vicinanza del confine sloveno; per l’amministrazione militare dell’Adriatisches Kunstenland; per l’elevatissimo numero di caduti; per i primissimi gruppi partigiani.

Un territorio che ha subito la ferocia delle SS tedesche, delle SS italiane, delle brigate nere, della X Mas, le stregi, le ruberie, gli incendi di interi paesi, a cominciare dal rogo di Forni di Sotto, gli omicidi seriali – chiamiamoli col loro nome! – di partigiani e civili.

Eppure – o proprio per tutto questo –  proprio qui, nel corso di due/tre mesi del 1944 si svolge la breve, ma ricchissima vita della repubblica partigiana della Carnia. C’erano in quella Repubblica molti semi della Costituzione del 1948. Ma un punto mi ha sempre colpito: fra i vari provvedimenti assunti da quella repubblica nell’ambito di un’idea e di una pratica di autogoverno, c’era l’abolizione della pena di morte per reati comuni. Pensate: oggi in mezzo mondo è praticata ancora la pena di morte. Allora, nel pieno di un massacro mondiale mai visto nella storia dell’umanità, e in un territorio che era il cuore della guerra ai civili, e cioè il “confine mobile”, si abolisce la pena di morte per reati comuni, una scelta di civiltà giuridica avanzatissima, di prossimità umana stupefacente, di estrema modernità.

Dunque uniti contro il nazifascismo, uniti nella repubblica partigiana, al di là di singoli contrasti e di ogni altra divergenza. Perché uniti contro il nazifascismo? Leggo la risposta nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare a Udine: “Tremilasettecento morti e feriti, settemila deportati, ventimila perseguitati che sentono ancora nello spirito le ansie e i patemi, e nelle carni il bruciore delle ferite e delle torture”.

Davanti alla memoria dei 29 delle carceri di via Spalato, davanti ai numeri della persecuzione, non interrogarsi sarebbe sciocco e improvvido. La storia insegna, scriveva Gramsci, ma non ha scolari. Guai a noi, allora, se non imparassimo! Saremmo condannati a ripetere gli errori del passato. Quale passato? Il passato ci insegna che un regime parlamentare liberale, come era l’Italia del primo dopoguerra, con tutti i limiti che sappiamo – non c’era il suffragio universale, per esempio – può scivolare verso un regime totalitario. La cifra del fascismo era la guerra e la violenza (e ci tornerò), ma Mussolini divenne capo del governo perché legalmente investito dal re. Hitler fu legittimamente nominato Cancelliere dal presidente del Reich. Questo ci insegna che la trasformazione autoritaria di uno Stato non avviene necessariamente attraverso un colpo di teatro, un putch militare o quant’altro; può invece avvenire, ed è avvenuto, attraverso uno scivolamento progressivodi un regime parlamentare.

Come tutti sappiamo, il fascismo va al governo in Italia nel 1922 e nel giro di pochi anni l’Italia si trasforma in un Paese radicalmente autoritario: sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, soppressa la libertà di stampa, di riunione o di parola, creato un Tribunale speciale per i reati di matrice politica. Contro la rappresentanza dei partiti, meglio, degli altri partiti, il fascismo si propone come rappresentanza per così dire esclusiva ed escludente che governa e controlla la politica e la società. Così, progressivamente, cambia la natura dello Stato, perché ad esso si sovrappone e con esso si identifica il partito fascista, un “partito milizia” che si autoattribuisce l’uso esclusivo del patriottismo ed identifica Stato, nazione e patria con la sua ideologia.

La guerra e la violenza sono origine, mezzo e fine del fascismo. Proprio qui a Udine il 20 settembre 1922 Mussolini disse: “la nostra violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda”.

Negli anni successivi l’Italia fascista – appunto –  invade l’Eritrea, la Somalia, l’Etiopia, la Libia, e poi Dalmazia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia, Francia meridionale. Nel 1936 Mussolini sostiene militarmente il colpo di stato in Spagna del generale Francisco Franco contro la legittima repubblica spagnola. Nell’estate del 1941 i poveri militari del Corpo di spedizione italiano in Russia, tantissimi friulani, tantissimi alpini della “Julia”,sono mandati allo sbaraglio contro l’Unione Sovietica, con esiti, come si sa, catastrofici, nella catastrofe totale della Seconda guerra mondiale.

Nella nostra storia il fascismo non è esistito senza una gestazione dalla guerra, la Prima guerra mondiale, e senza una connaturata propensione alla guerra imperialistica. Le parole – partito milizia – e i fatti – gli squadristi, che nascono concettualmente dall’esperienza militare degli arditi,i primi reparti di assalto durante la Grande Guerra– sono parole e fatti che hanno origine nella guerra. “Credere, obbedire, combattere”, sono un linguaggio di guerra. Il fascismo ingloba il mito della guerra “come igiene del mondo”, si scrive nel manifesto del futurismo pubblicato nel 1909 e il cui ideatore, Filippo Tommaso Marinetti, fu fascista della prima ora e tale rimase fino alla fine, perché aderisce alla repubblica di Salò. Il fascismo nasce e vive nel mito della guerra e della violenza. Poi c’è l’esito disastroso della Seconda guerra mondiale.

Con l’8 settembre, già minato dal 25 luglio, si dissolve quello Stato fascista, cioè i gruppi di comando, le burocrazie, gli apparati, le infrastrutture. Si sgretola nel senso comune quella specifica idea di Stato, di nazione. Ma non fu, come ancora sostengono alcuni, la morte della Patria; fu la morte di quella idea di patria fascista, incardinata sulle guerre coloniali o d’aggressione, sulle violenze, sulla negazione delle libertà, sul mito della tradizione. Iniziava la nascita di un’altra idea di patria, esattamente opposta, come comunità pluralista, vocata alla pace, incardinata sulle libertà e, come avverrà con la Costituzione, sul lavoro.

Ma dopo l’8 settembre 1943 nasce anche la cosiddetta repubblica fascista di Salò, che copre il centro nord d’Italia; con la repubblica di Salò il rapporto del fascismo con la guerra, la violenza e la morte si fa più stretto, carnale. Il mito del superuomo, il disprezzo della vita diventa nichilismo assoluto.

Si sa che la Repubblica di Salò era uno Stato fantoccio a servizio del Terzo Reich che, come sapete bene, controllava direttamente la Zona di Operazioni del Litorale Adriatico.La grandissima parte delle attività di Salò e dell’Adriatisches Kunstenland e dell’“Alpenvorland”consistevanella repressione sanguinaria e spesso sadica delle attività partigiane. A Trieste furono annunciate da Mussolini le leggi razziali il 18 settembre 1938. Dopo l’8 settembre 1943 la risiera di San Sabbacomincia a funzionare come campo di detenzione e successivamente come campo di sterminio. La strada è tracciata: dalla negazione dei diritti – le leggi razziali – alla negazione della vita – lo sterminio. E il nazifascismo fa morire, inghiottito da Auschwitz, persino l’anziano ex sindaco di Udine Elio Morpurgo, che è irredentista, nazionalista, aderisce al fascismo, ma è ebreo.

Proprio la Carnia è anche il territorio dell’offesa, dell’oltraggio, come ben sapete, per l’occupazione cosacca e caucasica al servizio della Germania nazista.

Finora ho rappresentato il passato. Ma se noi siamo qui per ricordare, dobbiamo sapere che chi ricorda il passato lo fa sempre nel presente, e che il passato ci serve per vedere meglio il presente, per toglierci gli occhiali dell’abitudine, dell’assuefazione, dell’indifferenza, del vedere il dito senza vedere la luna. E il presente non è chiaro per l’Italia e per l’Europa. È come quando sul mare per la foschia o per le nuvole non riusciamo a vedere la linea dell’orizzonte. Ecco, forse il ricordo dei 29 assassinati di queste carceri ci illumina la strada. Perché fu grazie a loro, grazie ai 21 fucilati due mesi prima, grazie ai partigiani uccisi e sopravvissuti, grazie alle popolazioni che li sostenevano, grazie alla repubblica della Carnia, grazie ai morti e ai deportati di Udine, che meno di tre anni dopo il nostro Paese, unito, libero e repubblicano, si diede una Costituzione.

Vedete, non è retorica. Prima non c’era la Costituzione. C’era lo Statuto albertino. Non c’era la sovranità popolare. C’era la sovranità del re. Non c’erano i cittadini, C’erano i sudditi. E sotto il fascismo, nella strana diarchia che si creò fra Mussolini e Vittorio Emanuele, i valori reali che si coltivavano erano l’esatto contrario dei valori della Costituzione. Lavoro, pace, libertà, eguaglianza, giustizia, solidarietà, democrazia, diritti sono il vocabolario della Costituzione. Il fascismo ha un altro vocabolario: fedeltà, ubbidienza, guerra, violenza, impero, divisione razzista. Ora la domanda che dobbiamo porci è la seguente: cosa possiamo fare perché quelle parole della Costituzione diventino sempre più fatti? Quelle parole servono a farci vedere l’orizzonte che ci manca.

L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia per antica consuetudine non giudica i governi sulle formule ma sulle azioni e sui comportamenti.

A qualsiasi governo si dia oggi il Paese noi chiediamo tre sole cose che – lo sappiamo – sono molto grandi.

La prima: attuare, certo, progressivamente, ma integralmente la Costituzione perché su quella via si esce dalla crisi, si crea lavoro, si restituisce una speranza al Paese. Ci muoviamo in uno scenario europeo che ci dà maggiori possibilità ma anche maggiori condizionamenti. L’Europa è la nostra irreversibile scelta, è assieme il mare che attraversiamo e il porto di arrivo. Ma con quale bussola navighiamo? La nostra bussola è proprio la Costituzione repubblicana.

La seconda: un vigoroso e costruttivo impegno antifascista, come dovrebbe essere nella natura di tutti i governi della Repubblica nata dalla Resistenza. Ma sappiamo che da tempo c’è chi cerca di mettere tutti sullo stesso piano, vittime e carnefici, torturati e torturatori. Sappiamo che c’è chi dice che l’antifascismo è un valore del passato che oggi non serve più, come la locomotiva a vapore rispetto al Frecciarossa. Sappiamo che c’è qualcuno che dice persino che la Costituzione è vecchia e superata. Pensate! È di ben settant’anni fa! Peccato che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione la Costituzione americana, del 1787.

La terza: chiudere una ferita ancora aperta e sanguinante: finalmente verità e giustizia per Giulio Regeni!

Proprio perché sappiamo tutto ciò, perché abbiamo occhi per vedere quello che sta avvenendo in Europa e nel mondo, perché ci accorgiamo che fascismi e razzismi, spesso in forme particolari, nazionali, specifiche, stanno tornando, noi lanciamo un grido di allarme e ribadiamo l’assoluta modernità dell’antifascismo. Notate bene: l’antifascismo non è un’ideologia; è un’ideache accomuna, e che perciò, per sua natura chiama un grande fronte unitario, un’unità di popolo, di associazioni, di organizzazioni diverse e distinte, ma unite in questa battaglia collettiva. Questo stiamo facendo ogni giorno e a questo invitiamo tutti, senza distinzioni.

Sapete, quando leggevo le vicende dei 29 fucilati, sentivo in me, davanti alla tragica grandezza di queste persone e di quegli eventi, un senso di inadeguatezza, di minorità. Perché quelle 29 persone, per come sono vissute e per come sono scomparse, mi sembravano, e sono, dei giganti. E pensavo a me e a tanti come me che, rispetto a loro, siamo dei nani, e godiamo di ciò che loro hanno conquistato, a cominciare dalla libertà e dalla democrazia.

E poi però mi sono chiesto come fare, oggi, in questa Italia, in questa crisi, a ritrovare la linea dell’orizzonte, la sottile linea che ci consente di pensare a un futuro. E ho pensato che c’è un modo per ritrovare quella linea: noi, nani, saliamo sulle loro spalle, le spalle dei giganti, e così possiamo guardare oltre, distinguere ciò che oggi non riusciamo ancora a vedere. Questo è il loro lascito, e il lascito di tutti i partigiani e le partigiane.

Così, e ho finito, penso ai 29 partigiani, richiamandoli al cuore, con un sentimento di affetto e di riconoscenza per ciascuno di loro, uno per uno. Carissimi partigiani, compagni, fratelli. Scriveva Italo Calvino nel testo della sua canzone: “Tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore”. E aggiungeva: “Ormai tutti han famiglia, hanno figli che non sanno la storia di ieri”.

Ebbene, ai nostri figli raccontiamola noi quella storia! Raccontiamola la storia di quelle 29 persone, vittime, martiri, caduti, innocenti, eroi normali! Questo è e sarà il nostro ringraziamento!

Viva la Resistenza! Viva i partigiani! Viva l’Italia!

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