Orazione di Alessia Zambon alla cerimonia di Faedis, domenica 27 settembre 2020


Ringrazio l’Anpi provinciale per questo invito che mi onora profondamente, ringrazio i rappresentanti delle istituzioni e le autorità militari, ringrazio voi tutti, cittadine e cittadini, che avete scelto di essere a Faedis quest’oggi.

Siamo qui perché si sappia che così è stato. E perché si ricordi.

La storia delle Repubbliche Partigiane e delle Zone Libere è ancora, in parte, sconosciuta. La Resistenza non fu solo un fatto militare, fu uno straordinario fatto civile, culturale, istituzionale. A Montefiorino, in Carnia, nell’Ossola, qui, nelle belle valli del Friuli Orientale e in tante altre valli e montagne, nacquero primavere di democrazia. In quelle brevi esperienze, che nel 1944 sbocciarono come fiori nel tragico scenario della Repubblica di Salò, si respirava già l’aria di un nuovo, grande patto nazionale che si incarnò, meno di quattro anni dopo, nella Carta: furono, quelle Zone Libere e quelle Repubbliche, “Semi di Costituzione”, con la splendida definizione di Carlo Smuraglia.

Nell’indagine storiografica, quando si è parlato della Resistenza, ci si è soffermati prevalentemente sulla Resistenza armata; questo indirizzo deve essere corretto, riconoscendo la complessità del fenomeno resistenziale, senza privilegiarne particolari aspetti o forme, ma considerandoli tutti, ed ognuno, come una componente essenziale di un quadro grandioso ed entusiasmante, di una stagione PERFETTA.

Era evidente, nell’orrore della barbarie fascista e nazista, che ad un’Italia finalmente liberata occorresse restituire non solo l’onore, non solo il connotato non più retorico di una “patria”, ma anche la dignità e l’assetto di una democrazia. Non si poteva tornare al periodo prefascista e agli statuti dell’800; bisognava immaginare un futuro diverso, ispirato alla creazione di un sistema nuovo, nel quale al governo di pochi, o di uno solo, si sostituisse, definitivamente, il governo dei cittadini, attraverso le varie forme della democrazia rappresentativa o di quella diretta. Questo era il grande sogno, talvolta perfino inespresso, per taluni addirittura inconsapevole, ma per molti altri, i più, imprescindibile. Ogni sogno, quando si svolge in contesti di oppressione e di sopraffazione, sembra assumere le sembianze dell’utopia: questa era una splendida utopia. Io sono, inoltre, persuasa che senza utopia le grandi azioni collettive, compresa la nostra Resistenza, non si sarebbero mai realizzate.

Certi fatti non possono essere giudicati sulla base della durata, della ragionevolezza delle pretese, della realizzabilità concreta delle aspirazioni, vanno presi per quello che sono stati in realtà: una voglia istintiva di democrazia, un desiderio di riprendere in mano le sorti popolari, un’ansia di allargare gli orizzonti e pensare anche al “dopo Liberazione”, di cui ormai si era certi.

Gli improvvisati governi popolari, quale che fosse la forma che ebbero ad assumere, pensarono in grande, progettarono la riforma della scuola, della sanità, del fisco, anticipando temi che poi troveranno un esito alto nella Costituzione.

Una piccola, straordinaria zona libera sorse anche qui, nel Friuli orientale. Era una zona di forte importanza strategica, era alle porte di Udine e minacciava vie di comunicazioni vitali per i tedeschi: la strada e la ferrovia Pontebbana, la strada e la ferrovia che conducono a Cividale. Attraverso il Collio, zona partigiana, si saldava, poi, con i territori liberati dal IX Korpus sloveno.

Il territorio era presidiato dalla divisione unificata Osoppo-Garibaldi, la “Natisone”, circa 3.000 uomini, reclutati fra i contadini e gli studenti, gli ufficiali e i soldati del disciolto esercito italiano, gli operai delle industrie di Gorizia e dei cantieri di Monfalcone.

Qui si crearono i Comitati di Liberazione Nazionale che prepararono presto le elezioni delle giunte comunali; esse si svolsero a Nimis e ad Attimis con grande partecipazione popolare.

Ma si scatenò repentina l’offensiva tedesca che soffocò con una violenza demoniaca quei giorni di libertà.

Ascoltate la cronaca asciutta e precisa: il 27 settembre 1944 Attimis è rastrellata. Faedis è invasa da migliaia di tedeschi. La gente fugge verso Canal di Grivò, Stremiz, Cividale.

Rastrellati i maschi e rinchiusi in una casa a Ronchis.

A Nimis scontri per tutta la giornata, mentre l’artiglieria spara da Tricesimo e dal treno blindato. Alcune famiglie si allontanano, la maggioranza ancora spera nei partigiani. Viene fatto saltare il ponte sul Cornappo. Tutta la notte bombardamento d’artiglieria.

Il 28 settembre Tedeschi e fascisti bruciano Sedilis. Alle 9 tornano a Nimis tedeschi e cosacchi, saccheggiano tutto.

A Faedis si combatte. Alla sera i partigiani si sganciano per evitare l’accerchiamento e fanno saltare i due ponti sul canal di Grivò. I Tedeschi cominciano sistematicamente a bruciare il paese.

A Costalunga 9 partigiani dell’0soppo sono bruciati vivi in una stalla.

Il Comando di Divisione, per evitare l’accerchiamento, ordina lo sganciamento. Le due brigate Garibaldi eseguono l’ordine, la osovana lo riceve in ritardo e si sgancia con difficoltà e gravi danni.

La Zona Libera del Friuli orientale è finita.

Il 29 settembre a Nimis la popolazione riceve l’ordine di sgomberare verso la Madonna delle Pianelle. Tutti si avviano con carri, carretti, carriole.

Presso Villa Ortensia trucidati cinque uomini, sospetti partigiani. Poi circa 400 tra uomini e donne sono condotti a piedi verso Udine. Andranno in Germania circa 100 uomini e 30 ragazze, in campo di lavoro o di sterminio.

Nel frattempo per tutto il giorno brillano ovunque gli incendi.

Il 30 settembre continua l’incendio di Nimis, tra i muggiti del bestiame rimasto incatenato. Qualche animale riesce a rompere la catena e vaga impazzito. Si salvano solo le case che i cosacchi hanno scelto come loro alloggio: lì bevono, mangiano, ridono.”

Siamo qui perché si sappia che così è stato. E perché si ricordi. Instancabilmente.

La memoria non è un esercizio di rito; qui, oggi, non sottraiamo alla polvere storie sbiadite, raccontiamo scelte di persone vere, che io sento ancora vive. Scelte di campo la cui portata ci richiama, nel presente, ad una responsabilità enorme.

Perché le scelte ora toccano a noi.

Ad ogni generazione la propria sfida, lontano da ogni paragone che sarebbe impossibile tracciare, io dico che questo è il nostro turno.

Che fare?

Praticare la memoria, innanzitutto.

Illuminare il bene e il male, scardinare, dunque, tutto l’impianto mistificatorio di certo sciagurato revisionismo che spiega quel periodo come una guerra civile tra parti ideologicamente e politicamente uguali, una sorta di carneficina dove fascisti e partigiani si ammazzavano a vicenda come in una battaglia tra bande.

Praticare la memoria pedagogica. L’educazione è un tema decisivo. C’è un divario da colmare urgentemente, perché la scuola non ha assolto, oppure lo ha fatto in maniera insufficiente, a uno dei suoi doveri fondamentali: quello di creare un effettivo senso di cittadinanza, una cultura della democrazia, basata sulla conoscenza reale, non deformata, della nostra storia più recente.

Torniamo a raccontare, fuor di rito e di narrazione ferma, i nomi e le belle vicende di lotta e sacrificio di queste donne e questi uomini; in esse splende intatto il gusto della libertà, il desiderio di farne casa, presente, “bene comune”.

Quelle vite dicono ancora che partecipare è esistere.

Ho definito, con le parole di Giovanni De Luna, la Resistenza una stagione PERFETTA.

Perfezione come risveglio di energie a lungo frustrate. Come riscoperta della distinzione tra un male passato e presente – il fascismo e l’invasore tedesco – e un bene da costruire giorno per giorno, fatto di nuove libertà, di autodeterminazione, di bellezza, di amore.

“Questa lotta, proprio per questa sua nudità, per questo suo assoluto disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne usciremo migliori”, scrive Giorgio Agosti, partigiano di Giustizia e Libertà, al compagno Dante Bianco.

Ciò che colpisce oggi nel raccontare quella vicenda è, infatti, la constatazione di come tutti abbiano cercato di dare il meglio di sè, politicamente e umanamente.

Ma l’Italia, come detto, soffre spesso di smemoratezza. E si ammala, a volte, di de-sistenza, come l’ebbe a definire Piero Calamandrei: l’esaurimento del moto politico e morale che attraversò quegli anni, “la facilità di oblio, il rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, il riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”.

E così la Repubblica edificata su quei venti mesi (e su tutto il lavoro degli antifascisti negli anni precedenti, da Gobetti ai fratelli Rosselli alle migliaia di persone anonime che lottarono per tenere accesa la fiamma della libertà) mostra, di sovente, di non esserne all’altezza: nelle sue istituzioni, ma anche, e più banalmente, nel suo popolo.

E mostra, sempre più spesso, intolleranze e violenze, lapidi distrutte, svastiche disegnate sui muri delle scuole e stelle di David sui portoni degli eredi dei deportati: il vecchio, osceno armamentario.

L’allontanarsi nel tempo della Resistenza può tendere a confinarla in un ruolo episodico, un momento tra i tanti del ‘900; mentre, di converso, il virus fascista non ha mai smesso di mutare e adattarsi. Razzismo, sufficienza morale, culto della forza, disposizione a sacrificare la libertà per l’autorità: non sono rischi connessi al ventennio, sono rischi che viviamo oggi, in questa fase calante e complessa della democrazia occidentale.

E per combatterli non trovo medicina migliore di una paziente ri-educazione all’antifascismo, alla PERFEZIONE di quella Resistenza che va pensata come spunto vivo.

Da lì viene la nostra democrazia: nei momenti migliori lì siamo sempre tornati, e lì dobbiamo tornare.

Rincasiamo allora, torniamo all’antifascismo praticato e fiero, in esso c’è il seme della comprensione reciproca, della solidarietà, del progresso per tutti e non per pochi.

Luigi Raimondi Cominesi era solito ripetere: ”Noi saremo sempre avanti, a prua.”

Il posto degli antifascisti è lì, a prua, specie quando i venti spirano cattivi e il cielo è così fosco che inquieta.