Luciano Rapotez “Ivan”


Era nato a Muggia il 19 aprile 1920. Dopo aver frequentato l’Istituto tecnico superiore, entrò nel mondo del lavoro come tornitore meccanico. Contemporaneamente prendeva contatti con le organizzazioni clandestine di antifascisti presenti nella sua cittadina e nel 1936 fu accolto in seno al Partito Comunista d’Italia.

Chiamato alle armi, fu arruolato in Marina. L’otto settembre 1943 lo colse nella base militare di La Spezia. Come tanti altri soldati italiani in quel frangente, intraprese l’avventuroso ritorno a casa, quindi, per evitare i bandi di chiamata alle armi del Gauleiter Rainer, si rifugiò insieme a tanti altri  giovani, sul Carso. Quando, su iniziativa del partito comunista triestino, a metà settembre ’43 nacque la prima brigata “Triestina”, a cui affluirono numerosi  muggesani, istriani e militari sbandati, non esitò ad arruolarsi, passando poi, dopo il rastrellamento dell’autunno che praticamente distrusse la formazione, nel battaglione “Triestino”, guidato da uomini di grande valore come Ferdinando Marega, Vinicio Fontanot, Riccardo Giacuzzo.

Nel dopoguerra, continuò la sua attività nelle organizzazioni antifasciste, affrontando i tempi complicati del Governo militare alleato.

Il ritorno di quelle zone all’Italia non portò grandi benefici a chi aveva fatto come scelta di vita quella dell’antifascismo. L’Italia e l’Europa erano sotto la cappa della guerra fredda e del più sfrenato anticomunismo. In questo contesto, Luciano Rapotez fu coinvolto in una vicenda che segnerà la sua vita.  Arrestato nel gennaio 1955 dalla polizia italiana con l’accusa di rapina e omicidio, fu torturato per giorni interi affinché confessasse: e le torture indicibili lo portarono a confessare ciò che non aveva commesso, come dimostrò la conclusione del processo:  “assolto per non aver commesso il fatto”, dopo una detenzione preventiva di 34 mesi, che gli costarono la perdita del lavoro e la distruzione della famiglia. Questo trauma lo segnò per sempre e determinò la sua instancabile lotta contro l’arma vergognosa della tortura, che ancora nel nostro ordinamento non è perseguita come dovrebbe. Questa lotta senza quartiere e (come purtroppo succede in tante sacrosante lotte intraprese nel nostro Paese) “donchisciottesca”, fu largamente conosciuta dall’opinione pubblica come il “caso Rapotez”, raccontato in libri e filmati.

Dopo la scarcerazione, Luciano Rapotez fu costretto a prendere la via dell’emigrazione in Germania dove restò fino al 1986.

Rientrò in Italia da pensionato. A Udine, città di origine della sua seconda moglie, subito si impegnò nell’ANPI, di cui divenne Segretario Provinciale nel 1987, carica che ricoprì ancora nel Comitato Regionale.

Luciano Rapotez in tutti questi anni è stato il più stretto collaboratore di Federico Vincenti e ha promosso e partecipato a centinaia di iniziative, incontri, convegni, manifestazioni della Resistenza.

A questo ha unito un personale e sentito impegno civile, affinché fosse inclusa nel codice penale italiano la previsione e la sanzione del reato di tortura. Questa battaglia lo ha portato a collaborare con personalità come Moni Ovadia, Gherardo Colombo, Gian Antonio Stella, che ne ha parlato nei suoi editoriali sul “Corriere della Sera”.