Intervento di Nicolò Berti a Borgo Villalta il 24/4/15


La storia di Giovan Battista Periz, “Orio”, è una storia lunga fatta di militanza e coraggio, di propaganda e manifestazione. In una Guerra di Liberazione combattuta per lo più da giovani, Orio con i suoi 53 anni è uno dei più vecchi. La sua storia inizia con il primo conflitto mondiale, dove combattente a soli vent’anni, viene fatto prigioniero dagli austriaci e internato nel campo militare di Mauthausen. Nel 1925 si iscrive al Partito Comunista, e da subito si impegna nella propaganda clandestina e nell’organizzazione di scioperi e manifestazioni con i comunisti di Cussignacco. Nel 1931 viene identificato e arrestato dall’OVRA, condannato a 18 anni di carcere viene però scarcerato nel 1933 in seguito ad un’amnistia, nel momento di maggior consenso del fascismo. Appena liberato, riprende le attività clandestine anche se è tenuto sotto osservazione speciale dalla polizia politica del regime.

Dopo l’8 settembre viene mandato dal Partito Comunista ad organizzare la resistenza in montagna, nella brigata garibaldina “Picelli Tagliamento”. Si occupa allo stesso tempo di organizzare i GAP cittadini e di gestire i servizi dell’intendenza. Il 14 gennaio 1945 viene individuato e arrestato, condotto in via Spalato e torturato. Malfermo in salute, viene infine deportato di nuovo a Mauthausen, con altri 99 compagni,  ma questa volta non vi uscirà.

Muore nel campo di concentramento di Mauthausen il 28 marzo 1945. E’ stato decorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare.

 Della storia di Periz un particolare mi ha toccato particolarmente: la determinazione della sua militanza, il suo continuare la lotta politica clandestina contro il regime fascista nonostante l’arresto e la condanna a 18 anni di carcere. Un impegno per la causa della libertà che non può che essere d’esempio alla mia generazione, che vive un epoca caratterizzata da uno spaesamento generale. Il particolare che vorrei cogliere dalla storia di Periz e degli altri resistenti di Borgo Villalta, è proprio questo senso del dovere, questa militanza instancabile, che nonostante le privazioni e le sofferenze della guerra rimane ferma e decisa. Una militanza che non può esistere se alla base non vi è un forte spirito di solidarietà, di cooperazione reciproca e quindi di responsabilità condivisa che veniva espressa in quella parola, che ormai suona strana e desueta, con cui si salutavano tra di loro i comunisti e i socialisti di allora: “compagni”.

Una solidarietà ed un senso di responsabilità civile su cui dovremmo riflettere. Il benessere e la ricchezza diffusa, più o meno illusoria peraltro, ci ha allontanati dalle altre persone, ci ha trasformato in detentori di diritti e di privilegi, che vedono nell’altro un pericolo per i propri interessi, un possibile concorrente in competizione per quei benefici della vita sociale che riteniamo solo nostri, per giunta, spesso, senza averli conquistati. Lo Stato stesso viene sentito addirittura come  nemico, un ladro del nostro benessere, con le sue tasse e le sue regole di cui non si vuole più considerare la funzione di giustizia sociale e di perequazione. Un benessere quindi che ci ha portato a rinchiuderci in noi stessi,  e a lasciarci da soli di fronte a problemi comuni. A questo egocentrismo, si aggiunge il crollo delle ideologie, il  venir meno di grandi valori condivisi, che oggi ci rende apatici nei confronti della politica; ed  i dati sulle affluenze alle urne e sulla militanza nei partiti e nelle associazioni in generale sono sintomo di ciò.

Una buona parte della mia generazione in particolare, post-moderna e cresciuta nel benessere, spesso non sente il bisogno di impegnarsi politicamente, non sente il bisogno di immaginare un mondo diverso, e quindi non si domanda nemmeno come poterlo realizzare, non percepisce il legame che unisce i destini di tutte le persone.  Noi giovani oggi siamo spinti a iperspecializzarci, a diventare padroni del nostro campo ma spesso ignoranti di tutto ciò che vi è al di fuori di esso. Facciamo fatica ad avere una visione complessiva e quindi a fare analisi critica in termini politici.

Anche la politica viene occupata dagli specialisti: i militanti vengono smobilitati, le strutture liquefatte. Il sistema democratico cambia così fisionomia:  perde le sue fondamenta che risiedono nella partecipazione attiva dei cittadini,  e affida ai burocrati e ai tecnici la gestione della cosa pubblica. Non si riesce quindi a guardare oltre ai sondaggi di opinione, e le idee e le scelte politiche diventano come un qualsiasi prodotto commerciale, da vendere piuttosto che da trasmettere e condividere.

Noi giovani viviamo in particolare questo cambiamento, ma le difficoltà dovute alla crisi economica e al bisogno di autodefinirsi al di fuori della propria famiglia ci portano a renderci conto di ciò che silenziosamente accade, del lento isolamento individuale a cui questo mondo complesso ci sta conducendo. Non fraintendetemi, non sono un nostalgico; non nutro nostalgia per un’epoca passata in cui le ideologie avevano invece ingessato in schieramenti compatti e in lotta tra loro la società. Però guardare indietro  ci permette di vedere, di notare tutti quei segnali che dovrebbero farci capire da che parte stiamo andando. E c’è, comunque, una richiesta di riferimenti ideali da parte di molti cittadini e molti giovani che si avvicinano anche all’ANPI, interessati alle tematiche che riguardano la democrazia in senso generale.

 Nel nostro Paese, dopo anni di decadenza economica, morale e politica, è necessario  un cambiamento radicale, anche delle istituzioni: è un atto morale, prima di tutto, come lofu la Resistenza; indipendente dalle appartenenze di partito, in un momento in cui  è necessario  ricomporre il rapporto corretto tra cittadini  e classe dirigente, sviluppo economico e democrazia, tra politica ed economia. E’ chiaro che l’ANPI non entra nel merito politico specifico delle questioni, ma sui principi e i valori costituzionali a cui le scelte politiche si devono formare, l’ANPI ha qualcosa da dire, perché la Costituzione è il suo riferimento.

La democrazia non è solo voto, è partecipazione attiva attraverso le associazioni. Ma spesso non è facile riconoscere nell’operato dei partiti quella funzione che la nostra Costituzione ha loro affidato, quale fondamentale forma di partecipazione in una democrazia parlamentare-rappresentativa. I partiti  hanno infatti allentato il loro impegno nel raccogliere le istanze della società e a ricondurle a  forma politica, e rischiano spesso di  essere solo una camera di risonanza degli interessi di una  classe  politica distante dal Paese; comitati elettorali più che luogo di partecipazione attiva di tutti i cittadini. Si sono assecondate infatti in questi anni, forti spinte  verso forme di democrazia populista e plebiscitaria, invece che partecipativa e parlamentare e ciò contrasta con lo spirito ma, spesso, anche con la forma del nostro ordinamento Costituzionale.

La rappresentanza politica garantita dalla possibilità di  scelta degli eletti, è un altro punto sensibile nel dibattito attuale ed anche qui bisogna attenersi al dettato Costituzionale ed alle sentenze della Corte, nella difesa del diritto di scelta degli elettori. Tutto si può discutere, ed anche cambiare, quando però il consenso al cambiamento discenda da un confronto tra tutti i soggetti della vita democratica, secondo le regole formali e sostanziali, e soprattutto alla luce del sole.

Il lavoro oggi è il problema centrale, per noi  come per tutta l’Europa; non il suo costo, ma la sua assenza. La nostra Costituzione  riconosce nel  lavoro un diritto, un valore fondativo alla base della  vita individuale e sociale; non solo un valore economico ma un elemento di stabilità e sicurezza  esistenziale per l’individuo e per la famiglia. La precarietà del lavoro limita di fatto l’esercizio dei  diritti democratici e destabilizza gli individui, le famiglie, e quindi la società. La nostra  Costituzione  riconosce inoltre nelle rappresentanze storiche del mondo del lavoro, datoriali e dei lavoratori, degli interlocutori fondamentali nella vita politica democratica.

Ognuno faccia le sue considerazioni sull’oggi…

 Abbiamo dato per scontato che i valori democratici conquistati fossero stati recepiti dalla società e dalle generazioni future una volta per tutte, ed è stato un errore. Abbiamo invece bisogno di andare a ripescare quelli  che la Resistenza è riuscita a esprimere con la Costituzione.

C’è  uno spartiacque, un momento di scelta tra il voler rimanere dei cittadini passivi e il prendere in mano il proprio futuro. Questa scelta fu fatta da molti nella Resistenza, in modi diversi, ma fu fatta. Fu fatta da Orio e dai combattenti di via Leicht, ma fu fatta anche da chi si rifiutò di combattere per la Repubblica Sociale dopo l’8 settembre, preferendo la deportazione in Germania. Fu fatta anche da chi nella sua quotidianità compiva dei semplici atti di disobbedienza civile e di istintiva solidarietà con gli oppressi dal nazifascismo.

Oggi noi giovani abbiamo bisogno di questi punti fermi, di chiarezza, di idee e di valori che ci permettano di  orientare  le nostre azioni; avere un idea complessiva, una visione di insieme che ci permetta di spaziare oltre al cubicolo del nostro ufficio, oltre al libro del nostro corso di laurea. Cerchiamo di immaginare un mondo diverso comprendendo la realtà, l’universalità di quei valori contenuti nelle pagine della Costituzione e sulle lapidi che ricordano i combattenti come Orio: Libertà, giustizia sociale, progresso civile, lavoro.

 Dobbiamo avere il coraggio di guardare avanti, oltre al nostro libro, al nostro ordinario particolare, perchè abbiamo bisogno ancora del pasoliniano “sogno di una cosa”.